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Tyrion spinse il suo cavallo oltre l’ariete. Gli avversari stavano scappando. Girò la testa da sinistra a destra, da destra a sinistra, nessuna traccia di Podrick Payne. Una freccia venne a schiantarsi contro il suo elmo, appena due dita sotto la feritoia; l’impatto per poco non lo fece cadere di sella. “Se devo rimanere qui come un palo, tanto vale che mi dipinga un bersaglio sul petto.”

Diede di speroni, avanzando al trotto tra cadaveri disseminati da tutte le parti. A valle, il fiume delle Rapide nere era un caos di galee ancora in fiamme. Placche d’altofuoco continuavano ad andare alla deriva sulla corrente, scaricando nell’aria torreggianti nembi di fuoco verde alti dieci metri. L’assalto di Tyrion aveva disperso gli uomini che azionavano l’ariete, ma i combattimenti proseguivano su tutta la riva. Uomini di ser Balon Swann, probabilmente, o di Lancel, cercavano di ributtare in acqua i nemici in arrivo dalle navi incendiate.

«Raggiungiamo la Porta del Fango» ordinò Tyrion.

«Alla Porta del Fango!» urlò ser Mandon.

E partirono di nuovo al galoppo. «Approdo del Re!» urlavano con voce roca i guerrieri. E anche: «Mezzo uomo! Mezzo uomo!». Tyrion si chiese chi glielo avesse insegnato. Attraverso l’acciaio e l’imbottitura dell’elmo, gli arrivarono le urla di dolore, il raschiare feroce delle fiamme, l’ululato dei corni da guerra, l’arrogante squillo delle trombe. Il fuoco era ovunque. “Dei misericordiosi, adesso capisco perché il Mastino ha paura. Sono le fiamme a spaventarlo…”

Dal fiume delle Rapide nere venne uno schianto di legno sconquassato. Un masso grande quanto un cavallo si era abbattuto su una delle galee. “Nostra o loro?…” Tra le spesse volute di fumo, Tyrion non fu in grado di dirlo. Il suo cuneo d’attacco si era infranto. Ogni uomo combatteva la sua battaglia, adesso. “Avrei dovuto tornare indietro…” pensò, continuando a cavalcare.

L’ascia cominciava a pesargli nel pugno. Ormai soltanto un manipolo di guerrieri si ostinava a seguirlo, gli altri erano fuggiti oppure morti. Fu costretto a lottare di redini per mantenere il suo stallone in direzione est. Al grande destriero il fuoco piaceva tanto quanto piaceva a Sandor Clegane, ma era certo più facile da comandare.

Uomini continuavano a uscire dal fiume, uomini ustionati e sanguinanti, che vomitavano acqua, uomini barcollanti, per lo più morenti. Tyrion condusse il suo gruppo tra loro, somministrando rapida morte ai pochi che riuscivano a reggersi in piedi. La guerra si riduceva alle dimensioni della sua feritoia nell’elmo. Cavalieri grossi il doppio di lui fuggirono nel vederlo arrivare. Quelli che lo affrontarono, morirono. Parevano così piccoli e impauriti.

«Lannister!» urlò, continuando a fare strage. Il suo braccio era rosso e gocciolante fino al gomito, il sangue scintillava alla luce degli incendi. Quando il suo cavallo si fermò di nuovo sollevò l’ascia insanguinata al cielo e sentì acclamare: «Mezzo uomo! Mezzo uomo!» Tyron si sentì come ubriaco.

Febbre della battaglia. Jaime gliene aveva parlato spesso, ma non aveva mai pensato di poterla sentire anche lui. Come il tempo sembra divenire indistinto, rallentare, fermarsi, come passato e futuro svaniscono, fondendosi solo nell’istante del presente, come la paura scompare, il pensiero si dissolve, il tuo stesso corpo cessa di esistere. «Non senti più le ferite, non provi più il dolore alla schiena causato dal peso dell’armatura, non noti più il sudore che ti cola negli occhi. Cessi di sentire, cessi di pensare, cessi di esistere. Non rimane altro che il nemico. Quell’uomo che devi abbattere, e poi l’uomo dopo di lui, e l’uomo dopo ancora. Sai che loro hanno paura e sono stanchi, invece tu non lo sei. Tu sei vivo e tutto attorno a te c’è la morte, ma le loro spade si muovono così lentamente che tu sei in grado di danzare tra le lame. Di danzare ridendo!» “Febbre della battaglia. E io sono il mezzo uomo, ebbro di massacro. Uccidetemi pure… se ce la fate!”

E loro cercarono di ucciderlo. Un altro picchiere gli venne addosso. Tyrion staccò la testa della picca. E poi, girandogli intorno, gli staccò la mano, poi tutto il braccio. Un arciere, privo del suo arco, lo attaccò impugnando una freccia come se fosse un coltello. Il destriero assestò un calcio alla coscia dell’uomo, con Tyrion che gli rideva in faccia. Superò un vessillo piantato nel fango, uno dei cuori fiammeggianti di Stannis. Spezzò l’asta in due con un colpo d’ascia. Un cavaliere venne fuori dal nulla, colpendo il suo scudo con una spada lunga impugnata a due mani, ancora, ancora… Fino a quando qualcuno non gli affondò una daga nell’ascella. Uno degli uomini di Tyrion, forse. Lui non vide chi fu.

«Mi arrendo, ser» era un altro cavaliere a invocare, più avanti lungo il fiume. «Mi arrendo. Ser cavaliere, mi arrendo a te. Il mio pegno… qui, qui!»

L’uomo giaceva in una pozza d’acqua nerastra, offrì un guanto di ferro a lamine d’acciaio quale simbolo di sottomissione. Tyrion fu costretto a chinarsi per prenderlo. A metà gesto, un’ampolla d’altofuoco esplose sopra di loro, sprigionando fiamme verdi. Nell’improvvisa vampata di luce, Tyrion vide che la pozza d’acqua non era nera, era rossa. Dentro il guanto ferrato, c’era ancora la mano del cavaliere. Tyrion glielo ributtò. «Mi arrendo» si lamentò l’uomo, pieno di disperazione, privo di speranza. Tyrion si allontanò da lui.

Un armigero afferrò le redini del suo cavallo e gli si avventò contro con una daga, mirando alla faccia. Tyrion parò il colpo, affondando la lama dell’ascia alla base del collo dell’avversario. Stava ancora cercando di liberarla quando un balenare bianco apparve ai margini del suo campo visivo. Tyrion si girò, pensando fosse ser Mandon Moore, invece era un altro cavaliere bianco. Ser Balon Swann indossava la stessa armatura, ma sulla gualdrappa del suo cavallo c’era l’emblema con il cigno bianco e il cigno nero della nobile Casa Swann. “Non è più un cavaliere bianco, ma pezzato.” Ogni palmo di ser Balon era schizzato di sangue e di materia organica, annerito dal fumo. Indicò verso il fiume con la mazza ferrata. C’erano grumi di cervello e frammenti d’osso appiccicati all’acciaio.

«Mio lord, guarda.»

Tyrion fece voltare il cavallo per poter scrutare le Rapide nere. In profondità, la corrente continuava a fluire, scura e possente, ma la superficie era una palude di sangue e di fuoco. Il cielo appariva rosso, arancione e verde brillante.

«Che cosa?» chiese il Folletto. Ma poi capì.

Uomini d’arme coperti d’acciaio stavano scendendo giù dal relitto di una galea che era andata a schiantarsi contro uno dei moli. “Così tanti… Ma da dove vengono?” Cercando di distinguere quelle sagome tra il fumo e i bagliori degli incendi, Tyrion seguì il loro percorso a ritroso, nel mezzo del fiume. Almeno venti navi, forse di più, impossibile contarle, erano incastrate le une contro le altre, le une dentro le altre. Remi incrociati, scafi legati da funi d’abbordaggio, impalati nei loro stessi arieti, avviluppati nel sartiame delle alberature divelte. Uno dei vascelli più grandi ne abbracciava due più piccoli. Relitti, tutti quanti, ma ammassati a distanza talmente ravvicinata da consentire di saltare dall’uno all’altro… e da passare da una riva all’altra del fiume delle Rapide nere.

Ed era esattamente quello che stavano facendo i guerrieri più coraggiosi di Stannis Baratheon. A centinaia. Tyrion vide uno di quei temerari che cercava di passare, spronando un cavallo terrorizzato, sopra remi e murate, in mezzo a tolde inclinate viscide di sangue e assediate dalle malefiche fiamme verdi dell’altofuoco.