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La sua stanza da letto era nera come la pece. Sansa sbarrò la porta e avanzò a tentoni nelle tenebre fino ad arrivare alla finestra. Quando aprì le tende il respiro le si mozzò in gola.

Il cielo a sud era un caleidoscopio di colori in costante mutamento, riflesso degli immani incendi che ardevano sulla terra. Turbinanti maree verdi scivolavano sullo sfondo delle nuvole, e sprazzi di luce arancione salivano verso il cielo. I rossi e i gialli delle fiamme normali lottavano con le sfumature di smeraldo e giada dell’altofuoco, ogni colore pulsava e poi svaniva, eserciti di ombre nascevano e perivano da un istante all’altro. Nel giro di pochi momenti, albe verdi cedevano il posto a tramonti arancione. L’aria stessa sapeva di bruciato, come a volte capitava con una pentola lasciata troppo a lungo sul fuoco, anche dopo che la zuppa è evaporata. Braci vorticavano nella notte, simili a sciami di lucciole.

Sansa arretrò dalla finestra, ritirandosi verso il letto in cerca di sicurezza. “Andrò a dormire” disse a se stessa. “E quando mi sveglierò, sarà un nuovo giorno, e il cielo sarà tornato a essere blu. I combattimenti saranno cessati e qualcuno verrà a dirmi se dovrò vivere o morire.”

«Lady» mormorò con un filo di voce, chiedendosi se avrebbe rivisto la sua piccola lupa una volta che anche lei fosse morta.

Poi qualcosa si mosse dietro di lei e una mano si serrò attorno al suo polso.

Sansa cercò di urlare. Un’altra mano le coprì la bocca, soffocando le sue grida. Le dita erano dure, ricoperte di calli. Ed erano viscide di sangue.

«Uccellino» una voce simile al raschiare dell’ubriaco. «Sapevo che saresti venuta.»

Fuori, la danza dei turbini di giada offuscava le stelle, riempiendo la stanza di bagliori. Per un momento, lei lo vide, tutto nero contro il verde. Il sangue che gli copriva la faccia era scuro come catrame, gli occhi accesi da un lampo ferale. Poi la luminescenza verdastra si dissipò, e lui fu solo una massa di tenebre avvolto in una cappa bianca tutta macchiata.

«Se urli ti uccido» Sandor Clegane, il Mastino, le tolse la mano dalla bocca. «Farai bene a crederci.» Il suo respiro veniva fuori in rantoli. Afferrò la caraffa di vino che aveva appoggiato al suo comodino da notte. Bevve una lunga sorsata. «Non t’interessa sapere chi sta vincendo la battaglia, uccellino?»

«Chi?» Sansa era troppo terrorizzata per opporsi.

«So soltanto chi ha perduto» il Mastino rise. «Io.»

“Non l’ho mai visto così ubriaco. Stava dormendo nel mio letto. Ma che cosa vuole da me?” «Che cosa hai perduto?»

«Tutto.» La metà ustionata della sua faccia era una maschera di sangue raggrumato. «Maledetto nano. Avrei dovuto ucciderlo anni fa.»

«È morto, dicono.»

«Morto. No. Col cazzo che è morto. Io non lo voglio morto.» Gettò da parte la caraffa vuota. «Lo voglio bruciato. Se gli dei mi ascoltano, saranno loro a bruciarlo, ma io non sarò qui per vederlo. Sto andando.»

«Andando?» Sansa cercò di divincolarsi. Niente da fare. La presa di Clegane era una morsa di ferro.

«L’uccellino ripete tutto quello che sente. Sì: sto andando via.»

«E dove?»

«Lontano da qui. Lontano dai fuochi. Fuori dalla Porta di Ferro, immagino. E poi da qualche parte a nord, da qualsiasi parte.»

«Non riuscirai a uscire» disse Sansa. «La regina ha sigillato il Fortino di Maegor, e anche le porte della città sono sbarrate.»

«Non per me. Io ho il mantello bianco. E ho questa.» Diede qualche corpetto all’elsa della spada. «L’uomo che cercherà di fermarmi è un uomo morto. A meno che già non sia avvolto dalle fiamme.» Fece una risata amara.

«Perché sei venuto qui?»

«Mi hai promesso una canzone, uccellino. O hai dimenticato?»

Sansa non aveva idea di che cosa intendesse dire. Non poteva cantare per lui qui, adesso, con il cielo pieno di fiamme, con uomini che morivano a centinaia, a migliaia.

«Non posso» gli disse, «Lasciami andare, mi stai facendo paura.»

«Tutto ti fa paura. Guardami. Guardami

Il sangue copriva la parte peggiore delle cicatrici, ma i suoi occhi erano lividi, sbarrati e spaventosi. L’angolo bruciato della sua bocca a tratti si contraeva. Sansa sentiva il suo odore, un misto di sudore, vino acido, vomito e soprattutto sangue, sangue, sangue.

«Io potrei tenerti al sicuro» rantolò il Mastino. «Tutti quanti hanno paura di me. Nessuno ti farà mai più del male. Se lo faranno, io li ucciderò.»

Clegane l’attirò a sé. Per un momento, Sansa fu certa che l’avrebbe baciata. Era troppo forte per combatterlo. Chiuse gli occhi, aspettando che passasse ma non accadde nulla.

«Proprio non riesci a guardarmi, vero?» lo sentì dire. Poi il Mastino la tirò violentemente per un braccio, facendola roteare su se stessa e gettandola sul letto. «Avrò quella canzone. Florian e Jonquil, hai detto.» Snudò la daga, gliela puntò alla gola. «Canta, uccellino, canta, se vuoi vivere.»

Sansa aveva la gola secca, contratta dalla paura. Tutte le canzoni che conosceva erano come svanite dalla sua mente. “Ti prego, non uccidermi” avrebbe voluto urlare. “Ti prego.” Poteva percepirlo ruotare la punta d’acciaio, premendola contro la sua gola. Fu quasi sul punto di chiudere nuovamente gli occhi, ma poi la memoria tornò. Non era la canzone di Florian e Jonquil, ma era pur sempre una canzone. La sua stessa voce le parve così flebile, incerta, tremante.

Dolce Madre, fonte di pietà,

risparmia i nostri figli dalla guerra, noi ti preghiamo,

ferma le spade e ferma le frecce,

lascia che abbiano giorni migliori.

Dolce Madre, forza delle donne,

aiuta le nostre figlie in questa tribolazione,

calma il furore e lenisci la furia,

insegna a tutte noi una via più gentile.

Aveva dimenticato le altre strofe. Quando la sua voce venne meno, Sansa temette che lui stesse per ucciderla. Ma un momento dopo, il Mastino abbassò la lama, senza dire nulla.

Un istinto ignoto la spinse ad allungare una mano verso di lui, a toccargli la guancia. La stanza era troppo tenebrosa perché lei potesse vederlo. Le sue dite percepirono l’appiccicoso del sangue, e anche qualcos’altro di liquido. Qualcosa che non era sangue.

«Uccellino…» disse un’ultima volta, la sua voce aspra come l’acciaio strisciato contro la roccia. Poi si alzò dal letto. Sansa udì il suono di una stoffa lacerata, seguito da un lieve rumore di passi che si allontanavano.

Quando anche lei scese dal letto, dopo lunghi momenti, era sola. Sul pavimento c’era il suo mantello, tutto attorcigliato, la stoffa bianca macchiata di sangue e annerita dal fuoco. Fuori, il cielo si era fatto più scuro, ormai solo pochi spettri verdi si ostinavano a danzare contro le stelle. Si era levato un vento gelido, che faceva sbattere le imposte. Sansa aveva freddo. Spiegò la cappa lacerata e si raggomitolò dentro di essa sul pavimento, tremando.

Non fu in grado di dire per quanto tempo rimase là. Udì un suono di campane, molto lontano nella città. Erano i rintocchi di una profonda voce di bronzo, sempre più rapidi. Sansa stava chiedendosi che cosa significassero quando una seconda campana venne a fare eco alla prima, seguita da una terza. I loro richiami s’intrecciarono oltre le colline, attraverso le valli, sulle vie e tra le torri, raggiungendo ogni angolo di Approdo del Re. Gettò da parte la cappa e andò alla finestra.