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«Sono tutte storie, e nessuna è più vera dell’altra.»

«Anche mia cugina mi ha detto la stessa cosa, e lei non le dice, le bugie» confidò una vecchia. «Dice che c’è questo grande branco, centinaia di lupi, mangiatori di uomini. E a guidarli è una lupa, una specie di mostro venuto fuori dal settimo infero.»

“Una lupa!” Arya sorseggiò la birra, rimuginando. L’Occhio degli Dei si trovava forse vicino al Tridente? Era stato presso il Tridente che lei era stata costretta ad abbandonare Nymeria, la sua meta-lupa. Non voleva farlo, ma Jory le aveva detto che non c’era altra scelta. La lupa aveva morso Joffrey e, se fosse tornata, l’avrebbero uccisa, anche se lui se l’era meritato. Così loro erano stati costretti a gridare e a urlare e a lanciare pietre. Alla fine, quando le pietre di Arya l’avevano colpita, Nymeria aveva smesso di seguire la carovana reale ed era svanita nelle foreste. “Probabilmente non mi riconoscerebbe nemmeno più” si disse Arya. “E se anche mi riconoscesse, mi odierebbe.”

«Ho sentito dire che questa lupa degli inferi è entrata in un villaggio, un giorno» riprese l’uomo dal mantello verde. «Un giorno di mercato, gente dappertutto, e quella appare come se niente fosse e strappa un neonato dalle braccia della madre. Quando la storia è arrivata a lord Mooton, lui e i suoi figli hanno giurato di farla finita con quella lupa. L’hanno seguita fino alla sua tana con un branco di cani lupo… Ma hanno portato a casa la pelle a stento. E dei loro cani non è rimasto niente.»

«È solo una storia.» Arya non fu in grado di trattenersi. «I lupi non li mangiano, i bambini.»

«E tu che ne sai, ragazzino?» domandò l’uomo dal mantello verde.

Prima che lei riuscisse ad articolare una risposta, la mano di Yoren si chiuse attorno al suo braccio in una morsa: «Il ragazzo è ubriaco di birra, tutto qui».

«No che non sono ubriaco. I lupi non mangiano i bambini…,»

«Vattene fuori di qui, ragazzino… E resta fuori fino a quando non imparerai a tenere la bocca chiusa quando parlano gli uomini» le diede una forte spinta in direzione della porta sul retro, che conduceva verso le stalle. «Va’, adesso. Vedi se quello stalliere ha abbeverato i nostri cavalli.»

Furente, Arya fu costretta a uscire. «Non li mangiano» mugugnò, dando un calcio a una pietra e mandandola a rotolare sotto uno dei carri.

«Ragazzo» la chiamò una voce amichevole. «Caro ragazzo…»

Uno degli uomini ai ceppi le stava parlando. Cautamente, Arya si avvicinò, la mano sull’elsa di Ago.

In un tintinnare di catene, il prigioniero sollevò la gavetta vuota. «A quest’uomo non dispiacerebbe un assaggio di birra. Quest’uomo ha sete. Sono pesanti questi bracciali che indossa sempre».

Era il più giovane dei tre, fisico asciutto, lineamenti raffinati, sempre sorridente. I suoi capelli erano per metà rossi e per l’altra bianchi, tutti incrostati della sporcizia della gabbia e del viaggio.

«Quest’uomo gradirebbe anche fare un bagno» riprese quando vide che Arya lo stava guardando. «E questo ragazzo potrebbe dimostrarsi suo amico.»

«Ne ho già, di amici.»

«Io non ne vedo» disse un altro nella gabbia, quello senza naso. Era tozzo e massiccio, con mani enormi. Una peluria nera gli copriva le braccia, le gambe, il petto e perfino la schiena. Ad Arya fece venire in mente un disegno che aveva visto in un libro di un gorilla delle Isole dell’Estate. Non era facile guardarlo a lungo, a causa del buco che aveva in faccia.

Il terzo, quello calvo, aprì la bocca e sibilò, come una specie di lucertolone bianco. Arya, spaventata, fece un balzo all’indietro. Allora lui aprì la bocca ancora di più, mettendo in mostra la lingua. In realtà, era solo un mozzicone.

«Falla finita» riuscì a dire Arya.

«Nelle segrete oscure, quest’uomo non ha potuto scegliersi i compagni di cella» riprese quello con i capelli di due colori. Qualcosa, nel modo in cui parlava, le fece venire in mente l’accento di Syrio. Era simile, eppure diverso. «Questi due non conoscono la cortesia. Quest’uomo deve chiedere perdono. Ti chiami Arry, non è così?»

«Bitorzolo» disse quello senza naso. «Faccia di bitorzolo, ragazzo di legno, Faccia di bitorzolo. Sta’ attento, Lorath, o quello ti colpisce con il bastone.»

«Quest’uomo si vergogna dei suoi compagni di viaggio, Arry» disse il prigioniero avvenente. «Quest’uomo ha l’onore di essere Jaqen H’ghar, un tempo della città libera di Lorath. Quella sarebbe la sua dimora. Gli ineducati compagni di viaggio di quest’uomo in cattività sono Rorge» indicò senza-naso con la gavetta «e Mordente.» Mordente sibilò di nuovo, ostentando una doppia chiostra di denti giallastri, limati a punte acuminate. «Un uomo deve pur avere un nome, non credi? Mordente non sa scrivere e Mordente non può. parlare, eppure i suoi denti sono molto affilati, per cui quest’uomo viene chiamato Mordente e lui sorride. Sei affascinato da tutto ciò?»

«No.» Arya arretrò dal carro. “Non possono farmi del male. Sono tutti incatenati.”

Jaqen capovolse la gavetta vuota: «A quest’uomo piacerebbe bere».

Rorge le lanciò la gavetta attraverso le sbarre, imprecando. Le catene gli impacciavano i movimenti ma, anche così, se Arya non fosse stata lesta ad abbassarsi, il contenitore di spesso metallo l’avrebbe colpita alla testa.

«Portaci della birra, foruncolo! Subito!»

«Tienila chiusa, quella bocca!» Arya cercò d’immaginare che cosa avrebbe fatto Syrio. Estrasse la sua spada di legno da allenamento.

«Prova solo ad avvicinarti» minacciò Rorge «e quel bastone te lo pianto su per il culo. Poi ti fotto a sangue.»

“La paura uccide più della spada.” Arya si costrinse ad avvicinarsi al carro. Ogni passo era più difficile del precedente. “Feroce come un furetto, quieta come acqua stagnante.” Le parole del maestro di scherma danzavano nella sua mente. Syrio non avrebbe avuto paura. Arya si era avvicinata tanto da poter quasi toccare la ruota, quando Mordente balzò in piedi e cercò di afferrarla, in uno stridore di catene tintinnanti. Gli anelli ai polsi gli bloccarono le braccia a un palmo dalla faccia di Arya. Il prigioniero sibilò.

Arya lo colpì, dritto fra i suoi occhietti malefici.

Mordente arretrò urlando. Poi, caricando con tutto il peso del corpo, si lanciò di nuovo verso di lei, sforzando al massimo le catene. Gli anelli cigolarono sfregando gli uni contro gli altri, tendendosi allo spasimo. Arya udì scricchiolare il legno vecchio e marcio del fondo del carro su cui erano fissati i grandi anelli di ferro delle catene. Enormi mani livide annaspavano nel vuoto nel tentativo di afferrarla, le vene che si gonfiavano lungo le braccia di Mordente. Ma i ceppi ressero e, alla fine, l’uomo crollò di nuovo all’indietro, con il sangue che colava delle pustole che aveva in faccia.

«Questo ragazzo ha più coraggio che buonsenso» commentò quello che aveva detto di chiamarsi Jaqen H’ghar.

Mentre Arya arretrava dal carro, sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Roteò su se stessa, brandendo la spada di legno. Era il Toro.

«Ma che fai?» l’apostrofò lui alzando entrambe le mani in atto di difesa. «Yoren dice che non bisogna nemmeno andargli vicino, a questi tre.»

«Non mi fanno paura.»

«E allora sei proprio stupido. Fanno paura a me.» La mano del Toro andò a sfiorare l’impugnatura della spada. Nella gabbia, Rorge si mise a ridere. «Allontaniamoci da loro, Arry.»

Arya pestò un piede per terra, ma alla fine permise al Toro di condurla verso l’ingresso della locanda. La risata di Rorge e il sibilare di Mordente li seguirono.

«Vuoi batterti?» Arya domandò al Toro. Aveva una gran voglia di colpire qualcosa.

Lui ammiccò, stupito. Ciocche di capelli neri, ancora umidi dal bagno, gli ricadevano sugli occhi azzurri. «Battermi? Ti farei del male.»

«Non penso proprio.»

«Tu non sai quanto io sono forte.»