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«Non avrò più bisogno di te per questa notte» disse Bolton senza guardarla.

Arya avrebbe voluto dileguarsi, silenziosa come un topo, ma qualcosa la trattenne là. «Mio lord» chiese. «Mi porterai con te quando lascerai Harrenhal?»

Lui si voltò a guardarla. Dalla sua espressione, sembrava che la cena avesse acquistato il dono della parola. «Ti ho dato forse la licenza di farmi delle domande, Nan?»

«No, mio signore.» Arya abbassò gli occhi.

«E allora non avresti dovuto parlare, non è così?»

«No. Mio signore.»

Per un momento, Bolton apparve divertito: «Ma ti risponderò, per quest’unica volta. Quando tornerò al Nord, intendo affidare Harrenhal a lord Vargo. Tu rimarrai qui, con lui».

«Ma io non…» tentò lei.

«Non è mia abitudine rispondere alle domande dei servi, Nan» tagliò corto Bolton. «Vuoi che ti faccia strappare la lingua?»

Lo avrebbe fatto con la stessa facilità con cui si mette il collare a un cane, Arya ne era certa. «No, mio signore.»

«Quindi non parlerai più?»

«No, mio signore.»

«Va’, dunque. Dimenticherò la tua insolenza.»

Arya andò, ma non a letto. Quando uscì nuovamente nel cortile invaso dalle tenebre la guardia alla porta le fece un gesto. «Viene una tempesta» disse. «Lo senti l’odore?»

Il vento soffiava a raffiche violente. Le fiamme delle torce montate sulle mura attorno al filare delle teste mozze si contorcevano. Nel dirigersi di nuovo al parco degli dei, passò accanto alla Torre dei Lamenti, dove un tempo aveva vissuto nel terrore di Weese. Dopo la caduta di Harrenhal, l’avevano occupata i Frey. Udì voci piene di rabbia uscire da una finestra, molti uomini discutevano e litigavano parlando tutti insieme. Elmar era seduto sugli scalini dell’ingresso, da solo. Arya vide che aveva le guance rigate di lacrime.

«Che cosa c’è che non va?» gli chiese.

«La mia principessa» singhiozzò. «Siamo stati disonorati, dice Aenys. È arrivato un uccello messaggero dalle Torri Gemelle. Il lord mio padre dice che ora io dovrò sposare un’altra, o diventare un septon.»

“È una principessa troppo stupida per rimpiangerla” pensò Arya. «I miei fratelli potrebbero essere morti» gli confidò.

Elmar le diede un’occhiata tetra: «E a chi vuoi che importi dei fratelli di una servetta qualsiasi?».

Arya dovette fare un grosso sforzo per non colpirlo. «Spero proprio che crepi, la tua principessa!» Scappò via prima che lui potesse afferrarla.

Nel parco degli dei, trovò il suo manico di scopa esattamente dove lo aveva lasciato. Lo portò all’albero del cuore, e s’inginocchiò. Foglie rosse stormirono. Rossi occhi scrutarono nel profondo di lei. “Gli occhi degli dei.” «Ditemi che cosa devo fare, dei» pregò.

Per un lungo momento, gli unici suoni furono il soffio del vento, il mormorio dell’acqua, il fruscio delle foglie, lo scricchiolare dei rami. E poi, da molto lontano, oltre il parco degli dei e le torri infestate da fantasmi e le immani mura di Harrenhal, arrivò il lungo, solitario ululato di un lupo. Ad Arya venne la pelle d’oca, e per un istante ebbe come una vertigine. In un remoto sussurro, credette di udire la voce di suo padre: “Quando la neve cade e i venti gelidi soffiano, il lupo solitario perisce, ma il branco sopravvive”.

«Ma non c’è nessun branco» bisbigliò Arya al volto nell’albero. Bran e Rickon erano morti, i Lannister avevano Sansa, Jon era andato alla Barriera. «E io non sono nemmeno più io, sono Nan. Adesso.»

“Tu sei Arya di Grande Inverno, figlia del Nord. Mi hai detto che puoi essere forte. E in te, c’è sangue di lupo.”

«Sangue di lupo» adesso, Arya ricordava. «Sarò forte quanto Robb. Sì, ho detto che lo sarei stata.»

Fece un lungo respiro, poi prese il manico di scopa con entrambe le mani e lo abbassò di colpo sul ginocchio sollevato. Si spezzò in due con un secco crack. Gettò i pezzi a perdersi tra le ombre.

“Sono un meta-lupo, basta con le zanne di legno.”

Quella notte, mentre aspettava il sorgere della luna, giacque nel suo letto angusto, sopra la paglia pungente. Giacque udendo le voci dei vivi, e ascoltando i morti che sussurravano e discutevano. Ormai, erano quelle le uniche voci di cui si fidava. Poteva udire il suono del proprio respiro, e anche gli ululati dei lupi cresciuti numerosi fino a diventare un grande branco. “Sono più vicini di quelli che ho udito nel parco degli dei, e mi stanno chiamando.”

Alla fine, scivolò fuori dalla coperta, indossò la tunica e scese le scale a piedi nudi. Roose Bolton era un uomo prudente, per cui l’accesso alla Torre del Rogo del Re era sorvegliato giorno e notte. Arya dovette quindi sgusciare attraverso una delle strette finestre delle cantine. Il cortile era immobile, la grande fortezza sprofondata nei suoi sogni maledetti. Più in alto, il vento urlava nella Torre dei Lamenti.

Alla forgia, i fuochi erano spenti, le porte tutte chiuse, sbarrate. Come già aveva fatto un’altra volta, Arya s’infilò da una finestra. Gendry divideva un pagliericcio insieme ad altri due apprendisti fabbri. Arya rimase accoccolata nel soppalco per molto tempo, lasciando che gli occhi si adattassero all’oscurità, in modo da essere certa che quello all’estremità del pagliericcio fosse proprio lui. A quel punto, gli coprì la bocca con una mano e con l’altra gli diede un pizzicotto. Gendry aprì gli occhi. Il suo non doveva essere stato un sonno molto profondo.

«Ti prego» disse Arya in un soffio. Poi tolse la mano dalla sua bocca e indicò. Per un momento, credette che lui non avesse capito. Poi però Gendry scivolò fuori dalle coperte. Attraversò la stanza, s’infilò una tunica di stoffa grezza e scese dal soppalco con lei. Gli altri due continuarono a dormire.

«E adesso che altro vuoi?» il tono di Gendry era basso, irritato.

«Una spada.»

«Pollice nero le tiene tutte sotto chiave. Te l’ho detto cento volte. È per il lord Sanguisuga?»

«No, è per me. Spacca il lucchetto con il martello.»

«Loro poi mi spaccano la mano» ribatté lui. «O anche qualcos’altro.»

«No, se scappi via con me.»

«Tu scappa. Poi quelli ti prendono e ti uccidono.»

«Faranno anche di peggio se restiamo. Lord Bolton darà Harrenhal ai Guitti sanguinari, me lo ha detto lui.»

Gendry si spinse via i capelli dagli occhi: «E allora?».

Arya lo guardò dritto in faccia, senza paura: «E allora, quando Vargo Hoat diventerà il padrone taglierà i piedi a tutti i servi per impedire loro di scappare. Anche ai fabbri».

«Tutte storie» disse lui cupamente.

«No, è vero, ho sentito lord Hoat che lo diceva» mentì Arya. «Taglierà via un piede a tutti quanti. Quello sinistro. Va’ nelle cucine e sveglia Frittella, lui farà quello che dici. Ci servirà del pane, o delle focacce, o qualsiasi altra cosa. Tu prendi le spade e io prendo i cavalli. Ci incontriamo alla porta nascosta nelle mura orientali, dietro la Torre degli Spettri. Là non ci va mai nessuno.»

«Conosco quella porta. È sorvegliata come tutte le altre.»

«E allora? Non dimenticherai le spade, vero?»

«Non ho detto che ci vengo.»

«No, non lo hai detto. Ma se ci vieni, non le dimenticherai, giusto?»

Gendry corrugò la fronte: «No» disse alla fine. «Penso di no.»

Arya rientrò nella Torre del Rogo del Re nello stesso modo in cui ne era uscita. Salì la scala a chiocciola, ascoltando l’eco dei suoi passi. Raggiunta la sua cella, si spogliò nuda e si rivestì con molta attenzione: due strati di biancheria, calzettoni caldi, la tunica più pulita che aveva. Era la livrea di lord Bolton. Sul pettorale sinistro, c’era cucito il suo emblema, l’uomo scuoiato di Forte Terrore. Si allacciò le scarpe, gettò una cappa di lana sulle spalle scarne e se la chiuse alla gola. Silenziosa come un’ombra, scese di nuovo le scale. Fuori dalla porta del solarium, si fermò ad ascoltare. Quando udì solo silenzio, l’aprì cautamente.