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«Ramsay.» C’era un sorriso sulle labbra carnose dell’uomo dall’elmo rosso. Un sorriso che non raggiunse mai i suoi occhi glauchi. «Snow, mi chiamava mia moglie lady Hornwood prima di divorarsi le dita. Io però preferisco Bolton.» Il suo sorriso si distorse. «Per cui, è una ragazza dei cani che mi offri in cambio dei miei buoni servigi, non è forse così?»

C’era un tono nella sua voce che a Theon non piacque affatto. E nemmeno gli piacque il modo insolente in cui gli uomini di Forte Terrore lo stavano guardando. «Quella era stata la promessa.»

«La tua promessa puzza di merda di cane. E francamente, ne ho avuto abbastanza di cattivi odori. Per cui, credo proprio che mi prenderò quella che scalda il tuo letto. Com’è che si chiama? Kyra?»

«Ma sei impazzito?» ringhiò Theon. «Io ti…»

Il manrovescio del Bastardo di Bolton lo centrò in piena faccia. Sotto l’urto dell’acciaio a scaglie, Theon sentì lo zigomo andare in pezzi con uno scricchiolio raccapricciante. Poi, per lui il mondo si dissolse in un urlo di dolore.

Più tardi, Theon Greyjoy si ritrovò a terra. Rotolò sullo stomaco, mandando giù una boccata di sangue. “Le porte! Chiudete le porte!…” Ma nessun suono venne fuori. Ed era comunque troppo tardi.

Gli uomini di Forte Terrore avevano già sventrato Rolfe il Rosso e Kenned. Altri ancora stavano riversandosi dalle porte ancora spalancate, un unico fiume di maglie di ferro e di spade affilate. Lorren il Nero snudò il suo acciaio, ma ne aveva già quattro addosso. C’era un fischio nelle orecchie di Theon, e orrore tutto attorno a lui. Ulf cercò di correre verso la Sala Grande, un dardo di balestra gli perforò il ventre. Theon vide maestro Luwin venire verso di lui. Un cavaliere su un cavallo da guerra lo trafisse alla schiena con la lancia, quindi fece voltare il cavallo per pestarlo sotto gli zoccoli. Un altro degli uomini di Forte Terrore fece vorticare una torcia sopra la testa, lanciandola poi sul tetto di legno delle stalle.

«Lasciate a me i Frey!» la voce del Bastardo di Bolton soverchiò il ruggito delle fiamme. «Bruciate il resto. Bruciate tutto… tutto!»

L’ultima cosa che Theon Greyjoy vide fu Sorriso, il suo cavallo, che erompeva dalle stalle divorate dalle fiamme con la criniera incendiata, nitrendo, impennandosi…

TYRION

Sognò un soffitto di pietra pieno di crepe, il tanfo del sangue, della merda e della carne bruciata. L’aria era piena di fumo acre. Tutto intorno a lui, uomini gemevano e si lamentavano. A volte, un urlo di sofferenza perforava l’atmosfera opaca. Quando cercò di muoversi, si rese conto di aver lordato il suo stesso letto. Il fumo che saturava l’aria gli faceva lacrimare gli occhi.

“Sto forse piangendo?” Non poteva permettere che suo padre se ne accorgesse. Era un Lannister di Castel Granito, lui. “Un leone. Devo essere un leone. Devo vivere da leone. E morire da leone.”

Ma il dolore era spaventoso. Troppo debole anche per gemere, giacque immobile nella sua sozzura e richiuse gli occhi. Da qualche parte, una voce greve, monotona, stava bestemmiando gli dei. Tyrion rimase ad ascoltare quella ridda di cose blasfeme, chiedendosi se fosse giunta la sua ora. Dopo qualche tempo, la stanza svanì.

Era all’esterno della città, in marcia in un mondo privo di colori. Corvi neri si libravano nel cielo grigio con le loro ali nere. Dovunque lui si girasse, avvoltoi famelici stavano banchettando in mezzo a nubi vorticose. Vermi bianchi strisciavano in putrefazioni nere. I lupi erano grigi, come le sorelle del silenzio. Insieme strappavano la carne ai caduti. Il campo dei tornei era disseminato di cadaveri. Il sole brillava come una moneta bianca incandescente. I suoi raggi si riflettevano nel fiume grigio, sulla cui superficie affioravano gli scheletri delle navi distrutte. Dalle pire dei morti si levavano nere colonne di fumo e nembi di livide ceneri.

“Sono stato io” Tyrion Lannister non ne dubitava. “Io ho ordinato loro di andare a morire.”

All’inizio, non c’erano suoni in quel mondo in bianco e nero. Ma dopo un po’, cominciò a udire le voci dei morti, lievi e terribili. Piangevano e gemevano, implorando che il dolore avesse fine. Chiedevano aiuto, invocavano le loro madri. Tyrion non l’aveva mai conosciuta, sua madre. Voleva Shae, ma lei non c’era. Così camminò attraverso le ombre grigie da solo, cercando di ricordare…

Le sorelle del silenzio stavano togliendo ai caduti le armature é i vestiti. Dalle tuniche degli uomini distrutti, tutti i colori brillanti erano svaniti. Adesso erano ricoperti solo di sfumature del bianco e del grigio, e il loro sangue era nero e raggrumato. Osservò i loro corpi nudi presi per le braccia e per le gambe. Li osservò mentre venivano fatti oscillare, per poi essere gettati sulle pire insieme ai corpi che li avevano preceduti. Metallo e stoffe venivano gettati su un carro di legno bianco, trainato da una coppia di alti cavalli neri.

“Così tanti morti.” I cadaveri giacevano inerti, le loro facce afflosciate, o irrigidite, o gonfie del gas della decomposizione. Facce irriconoscibili, nemmeno più umane. Gli indumenti che le sorelle gli avevano tolto erano decorati con cuori neri, leoni grigi, fiori morti, pallidi cervi spettrali. Le armature erano tutte ammaccate, squarciate. Le maglie di ferro sconnesse, lacerate, spezzate. “Perché li ho uccisi?” Aveva conosciuto quella risposta, un tempo. Ma adesso, per qualche ragione, l’aveva dimenticata.

Voleva chiederlo a una delle sorelle del silenzio, ma quando cercò di parlare, scoprì di non avere più la bocca. Pelle liscia, senza increspature, gli copriva i denti. Fu una scoperta che lo riempì di terrore. Come avrebbe fatto a vivere senza bocca? Cominciò a correre. La città non era distante e dentro la città, lontano da tutti questi morti, sarebbe stato al sicuro. Lui non apparteneva ai morti. Non aveva la bocca, ma era ancora un uomo vivo. “Anzi, un leone. Un leone vivo.” Raggiunse la città. Ma trovò le porte sbarrate.

Erano calate le tenebre quando si svegliò nuovamente. All’inizio, non gli riuscì di distinguere nulla ma poi, poco per volta, apparvero i vaghi contorni di un letto. Le tende erano tirate, ma poteva vedere le colonne di legno intarsiato, e le falde del baldacchino di velluto sopra di lui. E sotto di lui, c’era il morbido abbraccio del materasso di piume, il cuscino era di piume d’oca. “Il mio letto. Sono nel mio letto, nella mia stanza.”

Faceva caldo all’interno delle tende. Sotto il grande mucchio di pellicce e di coperte che lo avvolgevano, stava sudando. “Febbre” pensò nell’intontimento. Si sentiva molto debole. Quando cercò di sollevare una mano, il dolore lo trafisse come una pugnalata. Aveva l’impressione che la sua testa fosse diventata enorme, grande quanto tutto il letto, troppo pesante per riuscire a sollevarla dal cuscino. Il resto del corpo quasi non lo sentiva. “Come ho fatto ad arrivare qui?” Cercò di ricordare. Le immagini della battaglia ritornarono, una ridda di frammenti, di lampi sconnessi. Il combattimento lungo il fiume, il cavaliere che gli aveva offerto il guanto ferrato in segno di resa, il ponte formato dai relitti delle navi…

“Ser Mandon.” Rivide gli occhi morti del cavaliere con l’armatura bianca, la sua mano protesa, le fiamme verdi dell’altofuoco riflesse nello smalto della corazza. La paura tornò a sommergerlo come una marea gelida. Sotto le lenzuola, sentì la vescica che cedeva. Avrebbe urlato, se avesse avuto una bocca per farlo. “No, quello era nel sogno.” La testa continuava a pulsargli. “Aiutatemi, qualcuno mi aiuti. Jaime. Shae. Madre… qualcuno… Tysha…”

Nessuno udì. Nessuno venne. Da solo, nelle tenebre, ricadde nel sonno intriso dell’odore di piscio.

Sognò sua sorella, era in piedi accanto al letto, e il lord loro padre stava al suo fianco, con l’espressione aggrottata. Doveva essere un sogno. Lord Tywin si trovava migliaia di leghe lontano, nell’ovest, a combattere Robb Stark. Anche altri andarono e venirono. Varys lo guardò con un sospiro, e Ditocorto fece una battuta di spirito. “Fottuto bastardo traditore” pensò Tyrion, pieno di veleno. “Ti abbiamo mandato a Ponte Amaro, ma tu non sei mai tornato indietro.” A volte li udiva parlare gli uni con gli altri, ma non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Le loro voci gli ronzavano nelle orecchie come vespe dentro un’imbottitura di feltro.