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Voleva chiedere chi aveva vinto la battaglia. “Dobbiamo avere vinto noi, diversamente la mia testa sarebbe infilzata su una picca. Se io sono vivo, vuol dire che abbiamo vinto.” Non era certo di che cosa gli facesse più piacere: se la vittoria oppure il fatto di essere ancora in grado di articolare dei pensieri. Le sue facoltà mentali stavano tornando, lentamente, ma stavano tornando. Il che era un bene. La sua mente era tutto quello che aveva.

Al risveglio successivo, le tende erano state tirate e Podrick Payne era in piedi accanto a lui, reggendo una candela. Quando vide Tyrion aprire gli occhi, corse subito via. “No! Non andare. Aiutami…” Cercò di chiamare, ma quello che uscì fu un gemito soffocato. “Sono senza bocca.” Sollevò una mano verso la faccia, ogni movimento era causa di sofferenza e di incertezza. Là dove avrebbero dovuto incontrare carne, labbra denti, le sue dita trovarono della stoffa rigida. “Bende.” Aveva la parte inferiore della faccia strettamente fasciata, una maschera di gesso indurito, con fori per respirare e per nutrirsi.

Poco dopo, Pod riapparve. Questa volta, con lui c’era un estraneo, un maestro, con tanto di tonaca e di catena dell’ordine della Cittadella. «Mio lord, non devi muoverti» mormorò il sapiente. «Sei gravemente ferito. Rischi di causarti danni ancora maggiori. Hai sete?»

Tyrion riuscì in qualche modo ad annuire. Il maestro inserì una cannuccia di rame nel foro del nutrimento e, con molta cautela, gli versò un liquido in gola. Tyrion deglutì, quasi senza sentire il sapore. Si rese conto troppo tardi che quel liquido era latte di papavero. Quando il maestro tolse la cannuccia, lui stava di nuovo scivolando nel sonno.

Sognò di essere a una festa, un banchetto di vittoria in una grande sala. Era seduto sullo scranno d’onore al centro della piattaforma, e tutti levavano i calici a lui, il loro eroe. C’era Marillion, il cantastorie che aveva attraversato con loro le montagne della Luna. Cantava le temerarie imprese del Folletto, accompagnandosi con la sua arpa di legno. Perfino lord Tywin sorrideva in segno di approvazione. Quando la canzone ebbe termine, Jaime si alzò dal suo posto e ordinò a Tyrion d’inginocchiarsi. Con la sua spada dorata, lo toccò prima su una spalla e poi sull’altra e quando Tyrion si rialzò, era un cavaliere. Shae lo aspettava, pronta ad abbracciarlo. Lo prese per mano, ridendo e piena di brio, chiamandolo il suo gigante Lannister.

Si svegliò in una stanza fredda e vuota.

Le tende del letto erano state tirate di nuovo. C’era qualcosa che non andava ma non era in grado di capire che cosa. Lo avevano lasciato solo ancora. Spinse via le coperte e cercò di mettersi seduto, ma le fitte erano insopportabili. Tyrion aveva il respiro affannato e fu costretto a rinunciare. Il dolore alla faccia era il minore dei mali, tutta la parte destra del corpo era un unico incendio di sofferenza. Ogni volta che sollevava il braccio, una lama rovente gli affondava nel petto. “Ma che cosa mi è successo?” Perfino la battaglia, quando lui cercava di ricordare, pareva quasi un sogno. “Sono stato colpito più duramente di quanto mi fossi reso conto. Ser Mandon…”

Quella memoria lo spaventava, ma Tyrion s’impose di non lasciarla andare. Cercò di affrontarla, osservando, scrutando. “Ha cercato di uccidermi, nessun dubbio. E non si è trattato di un sogno. Mi avrebbe tagliato in due se Pod non… un momento: dov’è Pod?”

Digrignando i denti, si afferrò alle tende e tirò. I ganci cedettero e le tende vennero giù, parte sul letto, parte su di lui. Perfino quel piccolo sforzo lo aveva sfinito. La stanza gli girava intorno, pareti nude, ombre cupe, un’unica stretta finestra. Notò un baule che gli apparteneva, un mucchio disordinato di vestiti, la sua malconcia armatura. “Questa non è la mia stanza da letto” si rese conto. “Non è nemmeno la Torre del Primo Cavaliere.” Qualcuno lo aveva spostato. Il suo urlo di rabbia venne fuori come un lamento soffocato. “Mi hanno messo qui dentro a morire.” Fu il suo ultimo pensiero prima di chiudere nuovamente gli occhi. La stanza era fredda e umida, e lui stava bruciando.

Sognò un luogo migliore, una piccola casa confortevole sulla riva del mare, al tramonto. Le pareti erano storte e fessurate, il pavimento era in terra battuta, ma lui aveva sempre sentito il calore in quel posto, perfino quando il fuoco si spegneva.

“Lei mi prendeva sempre in giro quando accadeva” ricordò. “A me non veniva mai in mente di mettere altri ceppi sul fuoco, quello era sempre stato un compito dei servi.” “Noi non abbiamo servi” faceva presente lei. “Tu hai me, sono io il tuo servo” rispondeva lui. “Un servo ben pigro. Che fine fanno i servi pigri a Castel Granito, mio lord?” e lui rispondeva: “Li baciamo”. Questo portava sempre il sorriso sulle sue labbra: “Non ci credo proprio” diceva lei. “Scommetto invece che li picchiano.” Ma lui non cedeva: “Li baciamo, invece… così”. E le mostrava come. “Prima baciamo le loro dita, una a una, e poi i polsi, sì, l’incavo dei gomiti. E poi baciamo le loro strane orecchie, tutti i servi di Castel Granito hanno strane orecchie. E smettila di ridere! Baciamo le guance, il naso con quella gobba nel mezzo, ecco, così, e le loro fronti delicate, i capelli, le labbra… la bocca… mmmmm… così…”

Andavano avanti a baciarsi per ore, passando interi giorni non facendo altro che crogiolarsi nel letto, ascoltando il suono delle onde, accarezzandosi. Per Tyrion, il corpo di lei era meraviglioso, e lei sembrava trovare splendido il suo. A volte, lei cantava per lui. “Ho amato una fanciulla bionda come l’estate, con la luce del sole nei capelli.” «Ti amo, Tyrion» gli diceva prima di addormentarsi, la notte. «Amo le tue labbra. Amo la tua voce, e le parole che mi dici e il modo gentile in cui mi tratti. Amo la tua faccia.»

«Anche la mia faccia

«Sì, sì! Amo le tue mani e come mi toccano. Il tuo uccello, sì, amo il tuo uccello, e quello che sento quando è dentro di me.»

«Anch’io ti amo, mia signora.»

«Amo pronunciare il tuo nome. Tyrion Lannister. Sta bene vicino al mio. Non Lannister ma l’altra parte. Tyrion e Tysha. Tysha e Tyrion. Tyrion. Mio lord Tyrion…»

“Menzogne” pensò lui. “Tutto finto, tutto per i soldi. Era una puttana, la puttana di Jaime, il regalo di Jaime, la mia signora delle menzogne.” Il volto di lei parve dissolversi, svanendo dietro un velo di lacrime. Ma anche dopo che ogni traccia di lei fu scomparsa, Tyrion continuò a udire la sua voce, che lo chiamava, remota: «… Mio lord, riesci a sentirmi? Mio lord? Tyrion? Mio lord?…».

Nella nebbia del sonno narcotico, vide un morbido volto rosa proteso verso il suo…

«… Mio lord?»

«Mio lord Tyrion?»

… Era ritornato nella stanza fredda e umida, con le tende del baldacchino strappate. E la faccia su di lui era un’altra, non quella di Tysha. Una faccia troppo rotonda, con una leggera peluria castana.

«Hai sete, mio lord? Ho il tuo latte, il tuo buon latte. Non devi lottare, no. Non cercare di muoverti. Devi riposare.»

Il maestro aveva la cannuccia di rame in una mano e un’ampolla nell’altra. Quando si chinò ancora di più su di lui, la mano di Tyrion scivolò sotto la catena dell’ordine della Cittadella, l’afferrò, tirò. Il maestro lasciò cadere l’ampolla, disseminando il latte di papavero sulle coperte. Tyrion cominciò a torcere, e torcere. Torse fino a quando sentì gli anelli metallici affondare nel grasso collo dell’altro.