Vorrei non esserlo più.
Non aveva appetito, e accettò di malavoglia anche il cafezinho che il marito di Bosquinha preparò per loro. Era tardi, mancavano poche ore all’alba, e i due coniugi la convinsero ad andare subito a letto. Poco dopo però, quando la casa fu buia e silenziosa, si rivestì e scese nell’ufficio del sindaco sedendosi al terminale. Istruì il computer di collegarsi con quello della Stazione Zenador e cancellare gli ologrammi. Anche se lei non era stata capace di decifrare il segreto scoperto da Pipo, qualcun altro avrebbe potuto riuscirci, e lei non voleva altri morti sulla coscienza.
Poi uscì di casa e s’incamminò verso il centro della cittadina, attorno all’ansa del fiume, quindi attraversò Vila da Aguas e giunse alla Stazione Biologista. La sua casa.
Nell’interno dell’appartamento era freddo, e in camera da letto — da quanto tempo non entrava lì? — c’era un lieve strato di polvere sulle lenzuola. Ma nel laboratorio il riscaldamento era acceso e ogni cosa ben tenuta. Il suo lavoro non aveva sofferto dell’affetto che l’aveva unita a Pipo e a Libo. Lei sì, adesso.
Si mise all’opera con calma, metodicamente. Ogni campione, ogni vetrino e ogni cultura che avevano studiato per arrivare a ciò che era stato mortale per Pipo fu distrutto, e poi lavò i contenitori. Il lavoro che aveva fatto doveva scomparire, e voleva che di esso, e perfino della sua cancellazione, non restasse alcuna traccia.
Pallida in viso sedette al terminale. Sentiva il bisogno di spazzar via tutte le registrazioni sull’argomento, non solo le sue ma anche quelle inserite dai genitori e che l’avevano portata a quella scoperta. Cancellare il loro lavoro, relegarli definitivamente nel passato. Anche se questo era stato il centro della sua vita, l’attività con cui aveva identificato se stessa fin da bambina, doveva distruggerlo. Così anche lei sarebbe stata cancellata, annientata e dimenticata.
Fu il computer a fermarla. — Le note di lavoro sulla ricerca xenobiologica non possono essere cancellate — le rispose a voce. E Novinha si rese conto che sarebbe stato comunque inutile. Ciò che aveva imparato dai genitori, e poi da quegli appunti che per lei erano stati sacri come le Scritture, era stampato nella sua anima come una mappa stradale. Niente poteva essere distrutto né dimenticato. Ogni informazione era profondamente radicata in lei, aveva plasmato il suo essere. Si sentì prigioniera di un paradosso inestricabile. La conoscenza aveva ucciso Pipo, cancellarla avrebbe significato annientare ciò che i suoi genitori avevano lasciato per lei e farli morire una seconda volta, dunque non poteva conservarla e non poteva distruggerla. Intorno a lei c’erano solo pareti lisce e insormontabili che le si chiudevano addosso, che la schiacciavano.
Novinha fece l’unica cosa che le era rimasta: mise tutte quelle informazioni sotto strati e strati di accorgimenti protettivi, chiudendole dietro ogni codice d’accesso che riuscì a escogitare. Nessun altro che lei avrebbe potuto più disporne, finché fosse vissuta. Soltanto prima di morire avrebbe consentito allo xenobiologo destinato a succederle di prenderne visione. Con un’eccezione: quando si fosse sposata, suo marito avrebbe potuto visionare tutto quel materiale, purché dimostrasse che ciò era necessario. Ma lei non si sarebbe mai sposata. Le appariva talmente improbabile.
Immaginò il futuro che ora l’attendeva: antipatica, incolore, insopportabile. Non osava cercare la morte, e tuttavia sarebbe stata incapace di vivere davvero, di sposarsi, forse perfino di pensare al suo lavoro senza la costante paura di scoprire quel segreto mortale e lasciarselo inavvertitamente sfuggire. Per sempre sola, per sempre isolata, per sempre oppressa dalla colpa, desiderosa di morire e costretta a vivere. Tuttavia una consolazione l’avrebbe avuta: nessun altro sarebbe mai morto a casa sua. Non ce l’avrebbe fatta a sopportare una colpa maggiore di quella che già le pesava addosso.
Fu in quel momento di cruda e fredda disperazione che nei suoi pensieri tornarono La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e l’Araldo dei Defunti. Anche se il primo Araldo, colui che aveva scritto quella storia, era sicuramente nella tomba da migliaia d’anni, c’erano Araldi su moltissimi pianeti, al servizio di gente che pur non avendo fede in nessun Dio credeva nel valore e nella vita degli esseri umani. Araldi la cui opera consisteva nello scoprire i reali scopi per cui le persone avevano vissuto, e nel testimoniare la verità della loro vita allorché venivano sepolte. In quella colonia di cultura brasiliana c’erano preti invece di Araldi, ma un prete non le avrebbe dato alcun conforto. Quello che lei voleva lì era un Araldo.
Non lo aveva mai detto a se stessa così chiaramente, eppure l’aveva desiderato per tutta la vita, fin da quando nel leggere il libro era stata ammaliata dalla Regina dell’Alveare e dall’Egemone. Era ricorsa a sotterfugi per procurarselo, perciò conosceva la legge. Quella era una colonia sotto l’influenza della Chiesa Cattolica, ma il Codice Starways consentiva ai cittadini di richiedere la presenza di sacerdoti di qualunque religione, e gli Araldi dei Defunti erano considerati sacerdoti. Avrebbe potuto diramare una chiamata, e se un Araldo avesse scelto di venire la colonia sarebbe stata obbligata ad accoglierlo.
Forse nessun Araldo avrebbe avuto voglia di viaggiare fin lì. Forse non ce n’erano di abbastanza vicini da arrivare prima che lei fosse morta di vecchiaia. Ma esisteva la possibilità che uno di essi, partendo subito — e giungendo lì dopo venti, trenta o quarant’anni in tempo oggettivo della colonia — volesse esaminare la verità della vita e della morte di Pipo. E forse, quando avesse scoperto quella verità per proclamarla con la chiarezza intellettuale che lei aveva amato nella Regina dell’Alveare e l’Egemone, forse questo l’avrebbe liberata dal senso di colpa che le raggelava il cuore.
Inserì la chiamata nel terminale. Il computer l’avrebbe fatta pervenire via ansible agli Araldi dei mondi più vicini. Ti prego, vieni, disse in silenzio allo sconosciuto che stava già ascoltando quel messaggio. Anche se dovrai rivelare a tutti la verità sulla mia colpa. Anche se sarà così, vieni.
Si svegliò con un noioso dolore alla schiena e la sensazione d’avere la faccia rigida come una suola di scarpa. La sua guancia destra poggiava sul terminale del computer, che s’era spento per proteggerle la pelle dal contatto con gli interruttori-laser. Ma non era stato il dolore a destarla. Qualcuno la stava toccando su una spalla. Per un attimo credette che fosse l’Araldo dei Defunti, già arrivato in risposta al suo appello.
— Novinha — le fu sussurrato all’orecchio. Non dal Falante pelos Muertos, ma da qualcun altro. Qualcuno che le era parso di veder sparire nella tempesta la sera prima.
— Libo — mormorò, e fece per alzarsi. Troppo in fretta: le girava la testa, e le gambe le si piegarono. Mandò un gemito, mentre lui la afferrava per impedirle di cadere.
— Non ti senti bene?
Il respiro di Libo le sembrò dolce sul viso come la brezza di un giardino amato, e si sentì sicura, a casa. — Sei venuto a cercarmi.
— Novinha, sono venuto appena ho potuto. Mamma si è addormentata soltanto poco fa. Con lei c’è mio fratello, e l’Arbitro pensa al resto, e…
— Dovresti sapere che io so badare a me stessa — disse lei.
Libo la fissò in silenzio, poi la sua voce si fece rigida, disperata e stanca come la vecchiaia e l’entropia e la morte delle stesse stelle. — Dio mi perdoni, Ivanova, ma non sono qui per prendermi cura di te.
Dentro di lei una porta si chiuse di scatto. Non aveva saputo quale fosse la sua speranza finché non l’aveva perduta.
— Tu hai detto che Papà ha scoperto qualcosa in una tua simulazione. E che si aspettava che io riuscissi a capirla da solo. Credevo che avessi lasciato la simulazione sul terminale, ma quando sono tornato alla Stazione non c’era più.