— Tu mi preoccupi, Jane. Da quando in qua ti consumi di compassione per qualunque sconosciuto?
— Non ti sto rubando il mestiere. Ti ho esposto dei dati frutto di una complessa ricerca in varie strutture computerizzate. Questo è il mio talento.
— E il ragazzo… come si chiama?
— Miro. Lui ha fatto la chiamata quattro anni fa. Per la morte del figlio di Pipo, Libo.
— Libo non poteva avere più di trentacinque o…
— Mani spietate l’hanno spinto oltre la soglia fatale. Era anche lui uno xenologo, capisci… o zenador, come dicono in portoghese.
— Forse i maiali…
— Esattamente nel modo in cui è morto suo padre. Gli organi interni disposti nello stesso schema. Mentre tu eri in viaggio tre maiali sono stati giustiziati secondo l’identico rituale. Ma i compagni hanno piantato un alberello in mezzo alle viscere di ciascuno… un onore che non è stato riservato agli esseri umani.
Due xenologi uccisi da maiali, padre e figlio, a vent’anni di distanza. — Cos’ha deciso il Consiglio della Federazione?
— Sono molto in imbarazzo. La loro politica vacilla. Hanno rifiutato la qualifica di xenologi a entrambi gli apprendisti di Libo. Uno di questi è Miro. L’altra è la figlia di Libo, Ouanda.
— Continuano a tenere contatti con i maiali?
— Ufficialmente no. È in corso una controversia. Dopo la morte di Libo, il Consiglio ha ridotto i contatti a una visita al mese. Ma la figlia di Libo ha categoricamente rifiutato di ubbidire all’ordine.
— E non l’hanno rimossa d’autorità?
— Nella votazione del Consiglio la maggioranza favorevole a troncare i rapporti con i maiali ha avuto la meglio per un capello. Ma la proposta di esautorare la ragazza non è stata approvata. Tuttavia i consiglieri hanno deciso che Miro e Ouanda sono troppo giovani. Due anni fa alcuni scienziati sono partiti da Calicut. Arriveranno qui appena fra 33 anni, per prendere in mano ogni questione riguardante i maiali.
— Stavolta qualcuno è riuscito a capire perché i maiali hanno ucciso lo xenologo?
— Neppure un’ipotesi. Ma è per questo che sei qui tu, no?
La risposta gli sarebbe uscita di bocca con facilità, se giusto allora la Regina dell’Alveare non avesse dolcemente bussato ai suoi pensieri. Ender la sentì in sé come il sussurro del vento fra le foglie di un albero, insieme a un desiderio di calore e di luce. Sì, lui era lì a parlare per i defunti. Ma anche per riportare qualcun altro alla vita.
((Questo è un buon posto.))
Tutti sono sempre un passo avanti a me, eh?
((Qui vi è una mente. Molto più chiara di ogni mente umana che io abbia mai conosciuto.))
I maiali? Pensano al vostro stesso modo?
((Essa conosce i maiali. Ma… ha paura di noi.))
La Regina dell’Alveare si ritrasse, e Ender fu lasciato alle sue riflessioni. Fosche, poiché sentiva che Lusitania poteva dargli da masticare qualcosa che forse lui non avrebbe potuto inghiottire.
Il vescovo Peregrino tenne personalmente l’omelia. Questo era sempre un brutto segno. Non essendo mai stato un conferenziere vivace, era divenuto di un’eloquenza così contorta e involuta che per metà del sermone Ela non capiva neppure di cosa stesse parlando. Quim esibiva la faccia di chi segue alla perfezione, naturalmente, poiché per quel che lo riguardava le parole del vescovo erano oro colato. Ma il piccolo Grego non fingeva neppure di sembrare interessato. Anche quando sorella Esquecimiento si voltava, con gli occhietti crudeli induriti dal sospetto, in cerca dell’origine di qualche rumore misterioso, Grego continuava imperterrito a compiere il misfatto che aveva escogitato.
Quel giorno stava tirando via le viti dallo schiena di plastica del banco di fronte al loro, a poca distanza dal punto in cui poggiavano le spalle di sorella Esquecimiento. Ela lo fissava incredula, con la coda dell’occhio. Possibile che un bambino di sei anni fosse così pervicace da mettersi a lavorare di cacciavite in chiesa? Meditava forse di far cadere all’indietro la suora e qualcun altro? Il pensiero la fece rabbrividire.
Se Papà fosse stato lì, naturalmente, il suo lungo braccio le sarebbe passato davanti e con mossa gentile (oh, quanto gentile!) avrebbe tolto il cacciavite dalla mano di Grego. «Dove lo hai preso, eh?» sarebbe stato il suo solo rimprovero. Ma dopo la messa, quando fossero rientrati a casa, Papà avrebbe irosamente rimproverato Miro d’aver lasciato in giro degli utensili, gridandogli dietro insulti terribili e accusandolo di tutti i guai della loro famiglia. Miro l’avrebbe sopportato in silenzio. Ela si sarebbe finta affaccendata nella preparazione della cena. Quim si sarebbe seduto in un angolo, continuando a palpeggiare il rosario e a mormorare le sue inutili preghiere. Il più fortunato era Olhado, con i suoi occhi elettronici, perché si sarebbe limitato a spegnerli oppure a proiettarsi qualche scena registrata nel passato, e non gli avrebbe prestato alcuna attenzione. Quara sarebbe rimasta seduta su uno sgabello, con aria infelice e una delle sue bambole in mano. E il piccolo Grego, trionfante, con una mano aggrappata ai pantaloni di suo padre, avrebbe assistito mentre il biasimo per ciò che aveva fatto veniva scaricato sulle spalle di Miro.
Ela deglutì al ricordo di tutte le scene di quel genere, che sembravano sommarsi in una sola. Se soltanto fossero finite lì, sarebbero state sopportabili. Ma Miro infine se ne andava, loro si mettevano a tavola di cattivo umore, e…
Rapida come un serpente, sorella Esquecimiento si girò; le unghie delle sue dita si affondarono nel polso di Grego. All’istante il bambino lasciò cadere il cacciavite. Il suo scopo era di farlo tintinnare sul pavimento, tanto per chiasso. Ma sorella Esquecimiento non era meno astuta di lui, e con l’altra mano fu svelta ad afferrare l’utensile al volo. Grego sogghignò. Voltandosi la donna s’era piegata di lato, ed era sul punto di perdere l’equilibrio. Ela intuì quel che stava per succedere, ma non fece in tempo ad impedirlo: Grego si attaccò a un braccio di lei con tutto il suo peso, facendole sbattere con violenza i denti sull’orlo dello schienale.
Coprendosi la bocca insanguinata con una mano, sorella Esquecimiento si alzò, zitta e con gli occhi sbarrati, quindi uscì nel passaggio centrale, si segnò in fretta con l’altra mano e corse via. Grego riprese il suo lavoro di demolizione.
Papà è morto, ricordò Ela a se stessa. Quelle parole suonavano come una musica nella sua mente. Papà è morto, sì, però è come se fosse ancora qui, perché ha lasciato dietro di sé questa piccola mostruosa eredità. Il veleno che ha messo dentro di noi sta sempre traboccando, e forse finirà per ucciderci tutti. Quando è morto, il suo fegato era lungo soltanto otto centimetri e la milza non è stata neppure trovata. Strani organi grassi erano cresciuti al loro posto. Una malattia senza nome. Il suo corpo era degenerato, come un edificio su cui fosse al lavoro un architetto improvvisamente impazzito. E quella degenerazione continua a vivere nei suoi figli. Non nel nostro corpo, ma nell’anima. Noi esistiamo al posto di veri esseri umani normali, ci credono tali, ne abbiamo perfino la forma. Però ognuno di noi, ciascuno in modo diverso, è stato sostituito da un’imitazione di essere umano fatta di quelle putride, distorte escrescenze grasse che crescevano nell’anima di Papà.
Forse sarebbe stato diverso se Mamma avesse cercato di fare del suo meglio. Ma tutto ciò che a lei importa sono i suoi microscopi, e i cereali geneticamente mutati o qualunque cosa sia quello su cui sta lavorando.
— … il cosiddetto Araldo dei Defunti! Ma uno soltanto è Colui che può parlare per le anime trapassate, ed è il Sagrado Cristo!