E in quell’istante lui perse il contatto con i suoi pensieri. La sentì scivolare via da sé quasi che fosse stata una creatura di sogno, un sogno da cui lui si svegliava riluttante, e che come tutti i sogni sembrava d’un tratto impossibile da richiamare indietro.
Ender non aveva idea di cosa la Regina dell’Alveare avesse trovato, ma quali che fossero le sue speranze essa avrebbe dovuto confrontarsi con la realtà della Federazione Starways, così come lui doveva ora affrontare le leggi della colonia, la Chiesa Cattolica, due giovani xenologi i quali potevano rifiutarsi di lasciargli vedere i maiali anche da lontano, una xenobiologa che dopo averlo invitato lì aveva cambiato idea, e varie conseguenze possibili fra cui una forse ancora peggiore: il fatto che se la Regina dell’Alveare fosse rimasta su quel pianeta, avrebbe dovuto restarci anche lui. Mi sono appartato dall’umanità per tanti anni, pensò, intromettendomi solo per cacciare il naso negli affari altrui, facendo del male o del bene, e poi andandomene via di nuovo spensierato e intoccato. Come potrei mai diventare parte di questo posto, se è qui che dovrò restare? La sola cosa di cui ho mai fatto parte, salvo Valentine, è stata la Scuola di Guerra, e ambedue ormai sono svanite, relegate nel passato…
— Eccoti lì, nella palude della tua solitudine — disse Jane. — Sento il tuo cuore rallentare i battiti, il respiro farsi rauco e faticoso. Ancora un minuto e ti sentirò singhiozzare penosamente, suppongo.
— La cosa è molto più complessa. — Ender assunse un tono gaio. — Sono intento a un’autocommiserazione anticipata, in previsione di tutti i guai che mi attendono qui fuori.
— Saggia idea, Ender. Ma perché non sbatterci la testa fin d’ora, se proprio vuoi cominciare a fasciartela? — Il terminale prese vita, e il campo olografico raffigurò una fila di snelle ballerine sgambettanti. Jane vi comparve in mezzo come una goffa maialina in tutù rosa. — Vai a fare quattro passi, così ti sentirai meglio. Sei stato al chiuso per giorni. Cosa stai aspettando?
— Non so neppure dove mi trovo, Jane.
— Questi bravi coloni non hanno una carta della città — lo informò lei. — Tutti sanno già tutto. Però le mie agili zampette hanno scovato una mappa del loro sistema fognario, divisa in quartieri. Posso estrapolare per te posizione e forma di ogni edificio.
— Vediamo, allora.
Sul terminale apparve un modellino tridimensionale della città. Forse lui non era il benvenuto lì, e il suo alloggio non era granché, ma la colonia era stata abbastanza gentile da fornirgli un terminale moderno. Non si trattava di un’istallazione domestica standard, bensì di un simulatore multiuso con un campo olografico quindici volte più vasto del normale, dotato di un notevolissimo potere risolutivo. L’immagine gli apparve così realistica che per un istante ebbe l’impressione di essere un Gulliver giganteggiante su una Lilliput ancora inconsapevole della sua esistenza, ancora all’oscuro della sua capacità distruttiva.
I nomi delle varie zone aleggiavano nell’aria, sopra i principali distretti fognari. — Tu sei qui — disse Jane, — A Vila Velha, nella città vecchia. A un isolato da qui c’è il praça, il posto dove si tengono le riunioni pubbliche.
— Hai una carta della zona dove vivono i maiali?
Il villaggio scivolò da parte svanendo da un lato del campo olografico mentre nuove immagini apparivano dall’altro. Era come passare in volo su un territorio. Sulla scopa della mia strega, pensò. Ai confini della città si estendeva un recinto.
— Questa è la sola barriera fra noi e i maiali — rifletté Ender.
— Genera un campo elettrico entro il quale i nervi sensibili al dolore vengono stimolati — disse Jane. — Se tocchi il recinto, ti dà l’impressione che qualcuno ti stia mangiando via le dita con una lima.
— Un pensiero piacevole. Dove siamo, in un campo di concentramento? O in uno zoo?
— Dipende dai punti di vista — disse Jane. — È il lato umano del recinto quello connesso con il resto dell’universo, mentre dall’altra parte ì maiali sono confinati sul loro pianeta.
— Con la differenza che loro non sanno d’esser chiusi dentro.
— Oh, certo! — sospirò Jane. — È l’aspetto più affascinante dell’animo umano. Dev’esser bello essere così sicuri che gli animali inferiori sanguinano d’angoscia per non aver avuto la grande fortuna di nascere homo sapiens. - Oltre il recinto si levava il versante di una collina, sulla cui dorsale cominciava una fitta boscaglia. — Gli xenologi non si sono mai spinti molto avanti in questa foresta. La comunità dei maiali con cui hanno rapporti è a un chilometro di distanza. Tutti i maschi vivono in una grande casa di tronchi, insieme. Non sappiamo nulla degli altri villaggi o insediamenti. I satelliti però confermano che una foresta di queste dimensioni contiene una popolazione di individui pari alla media di una antica cultura terrestre di cacciatori-raccoglitori.
— Vanno a caccia?
— Per lo più raccolgono il cibo sugli alberi.
— Dove sono morti Pipo e Libo?
Jane illuminò un tratto di terreno erboso presso il sentiero in salita. Non distante da lì sorgeva un grosso albero, isolato, e due più piccoli crescevano poco più a destra.
— Quei tre alberi — mormorò Ender, — così vicini, non credo che ci fossero nell’ologramma che ho visto su Trondheim.
— Risaliva a ventidue anni fa. Quello grosso è l’albero piantato dai maiali nel corpo dei ribelle di nome Rooter, giustiziato prima dell’omicidio di Pipo. Gli altri due rappresentano anch’essi esecuzioni di maiali, più recenti.
— Vorrei sapere perché piantano alberi per i loro compagni ma non per gli uomini.
— Gli alberi sono sacri — disse Jane. — Pipo ha scritto che molti alberi della foresta hanno un nome proprio. Libo ipotizzava che avessero il nome di individui morti.
— E gli umani, evidentemente, non fanno parte del culto dell’adorazione degli alberi. Be’, questo ragionamento sembra funzionare. Tuttavia i rituali di questo genere non emergono dal nulla. Solitamente, alla loro origine c’è una ragione legata alla sopravvivenza della comunità.
— Andrew Wiggin, di professione antropologo?
— L’uomo è il campo di studi che più si confà all’uomo.
— Allora vai a studiarne qualcuno, Ender. La famiglia di Novinha, ad esempio. Fra parentesi, alla rete di computer, locali e interstellari, è stato ufficialmente proibito di rivelarti gli indirizzi di chiunque.
Ender sorrise. — Così Bosquinha non è amichevole come sembrava.
— Se dovrai chiedere l’indirizzo di questo o di quello, conosceranno i tuoi movimenti. E se c’è qualche posto in cui non vogliono che tu vada, non ne conoscerai l’esistenza.
— Tu puoi aggirare le loro restrinzioni, vero?
— L’ho già fatto. — Un piccolo edificio s’illuminò presso il recinto, dietro la collina dell’osservatorio. Era il posto più isolato che fosse possibile trovare a Milagre. Poche altre case risultavano costruite in zone dove ci si trovava con la recinzione praticamente fuori dalle finestre. Ender si domandò se Novinha avesse deciso di abitare lì per essere accanto al recinto oppure lontana dal vicinato. Forse era stata una scelta di Marcão.
Il distretto più vicino era Vila Atras, quindi una zona chiamata As Fàbricas che si estendeva fino al fiume. Come s’intuiva dal nome, consisteva per lo più in piccole fabbriche dove si lavoravano metalli, plastiche, fibre tessili, e le cibarie usate da Milagre. Una piccola e ben disposta economia autosufficiente. E Novinha aveva deciso di abitare isolata e fuori vista dai suoi concittadini. Adesso Ender era certo che si trattava di una sua scelta. Non era forse questa l’ombra entro cui viveva? Lei non aveva mai fatto parte di Milagre. Non era un caso che tutte e tre le chiamate per un Araldo fossero partite da lei e dai suoi figli. La cosa in se stessa rappresentava una sorta di sfida alla società, il sintomo che in loro esisteva la consapevolezza di non appartenere alla comunità dei cattolici di Lusitania.