Una mano mascolina, forte ma sorprendentemente liscia, si sporse da oltre una sua spalla, prese il bricco e lo sollevò sopra una tazza. Dal delicato beccuccio di ceramica uscì il flusso sottile del caffè, caldo e profumato.
— Posso deramar? — chiese lui. Che domanda stupida, visto che lo stava già versando! Ma aveva una voce gentile, e il suo portoghese era sfumato di un simpatico accento castigliano. Uno spagnolo, dunque?
— Desculpa me — mormorò lei. Mi scusi. — Trouxe o senhor tantos quilômetros…
— Nessuno misura i voli interstellari in chilometri, Dona Ivanova. Li si misura in anni. — In quelle parole c’era un’accusa, ma il tono parlava di comprensione, perfino di perdono, perfino di consolazione. Io potrei lasciarmi sedurre da questa voce. Questa voce è una bugia.
— Se potessi cancellare dalla realtà il suo viaggio, e rimandarla indietro a ventidue anni fa, lo vorrei più di ogni altra cosa. Chiamandola ho fatto uno sbaglio. Mi dispiace. — La sua stessa voce le apparve bugiarda. Come la vita che aveva alle spalle, anche quelle scuse suonavano false e artificiose.
— Io non ho sentito il trascorrere del tempo — disse l’Araldo. Era fermo, in piedi dietro di lei, e Novinha non aveva ancora visto il suo volto. — Per me è passata solo una settimana da quando ho lasciato mia sorella. Lei è la sola parente che mi resta. Sua figlia non era ancora nata, e adesso ha probabilmente finito gli studi, e forse si è sposata e ha già avuto dei bambini. Non la conoscerò mai. Ma ho conosciuto i suoi figli, Dona Ivanova.
Lei sollevò la sua tazza di cafezinho e la bevve in un solo sorso, benché il liquido le bruciasse la lingua e la gola scendendole nello stomaco come una lama di coltello. — È appena arrivato e già crede di conoscerli?
— Meglio di lei, Dona Ivanova.
Novinha sentì Ela mandare un lieve ansito all’audacia dell’Araldo. E pur pensando che quelle parole avrebbero potuto essere vere, la irritò che un estraneo osasse pronunciarle. Si volse bruscamente per dargli una risposta tagliente, ma lui s’era mosso, non era più alle sue spalle. Si girò dall’altra parte e non lo vide, allora si alzò e scoprì che l’uomo non era rimasto in cucina. Sulla soglia, Ela aveva gli occhi spalancati e taceva.
— Torni qui! — esclamò Novinha. — Lei non può parlarmi così e andarsene a questo modo!
Ma lui non rispose. Dopo qualche istante, invece, Novinha udì una lieve risata provenire da una delle camere più lontane. Seccata, percorse il corridoio fino all’altra estremità della casa. Giunta in camera sua ebbe la sorpresa di scoprire che c’era Miro, seduto sul letto, mentre l’Araldo era in piedi presso la porta, e i due stavano ridendo. Miro vide arrivare la madre e il sorriso gli smorì sul volto. Questo le causò una fitta di angoscia. Erano anni che non lo vedeva sorridere; aveva perfino dimenticato di quanta bellezza questo gli illuminasse il volto, proprio come un tempo accadeva al volto di suo padre. E lei, avvicinandosi, aveva spento quel sorriso.
— Abbiamo dovuto venire a parlare qui perché Quim è intrattabile — spiegò Miro. — Ela ha rifatto il letto.
— Non credo che all’Araldo importi se i letti sono fatti o no — disse freddamente Novinha. — È così, Araldo?
— Ordine e disordine — disse l’Araldo, — possono avere entrambi una loro bellezza. — Ma non s’era girato a guardarla in viso, e lei ne fu lieta, perché non avrebbe dovuto vedere i suoi occhi mentre gli diceva quello che adesso intendeva dirgli.
— La devo informare, Araldo, che lei è venuto qui per uno sciocco errore — dichiarò. — Può odiarmi per questo, se vuole, ma lei non ha nessuna elegia da fare. Io ero una ragazzina stupida. Nella mia ingenuità avevo creduto che quella chiamata avrebbe fatto accorrere qui addirittura l’autore della Regina dell’Alveare e dell’Egemone. Evidentemente ero fuori di me. Avevo perduto un uomo che consideravo un padre, e volevo essere confortata.
Solo in quel momento lui si volse. Era un uomo giovane; più giovane di lei, comunque, con occhi in cui si leggeva un’intelligenza attraente. Perigoso, pensò lei. È pericoloso, è bello, e io devo resistere a questo sguardo così comprensivo.
— Dona Ivanova — disse lui, — come può aver letto La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e credere che il suo autore possa portare conforto?
Fu Miro a rispondergli. Il silenzioso, riflessivo Miro, che interveniva in una conversazione altrui, e con un vigore che lei non gli vedeva assumere fin da quand’era bambino. — Io l’ho letto — affermò. — E direi che il primo Araldo dei Defunti abbia scritto la storia della Regina dell’Alveare con profonda compassione umana.
L’Araldo sorrise tristemente. — Ma non la stava scrivendo per gli Scorpioni, no? Stava scrivendo per l’umanità, che ancora celebrava la distruzione degli Scorpioni come una grande vittoria. E scrisse con crudeltà, per mutare il loro orgoglio in rimorso, la loro gioia in dolore. E oggi gli esseri umani hanno completamente dimenticato che un tempo odiavano gli Scorpioni, e che un tempo onorarono e idolatrarono un nome ora divenuto impronunciabile…
— Per me non c’è niente d’impronunciabile — disse Ivanova. — Il suo nome era Ender. E distruggeva tutto ciò che toccava. — Come me, pensò.
— Ah, sì? Ma cosa ne sa di lui? — D’un tratto la sua voce era tagliente, secca e crudele. — Come può dire che non c’era nulla che lui toccasse dolcemente, o nessuno che lo amasse e si sentisse riscaldare dal suo amore? Distruggeva tutto ciò che toccava… questa è una cosa che non può esser detta di nessun essere umano mai vissuto.
— È questa la sua filosofia, Araldo? Allora lei non ne sa molto — lo sfidò Novinha, ma il tono irato di lui l’aveva intimorita. Fino a un momento prima l’aveva creduto flemmatico e imperturbabile come un confessore.
Tuttavia la rabbia svanì quasi subito dal suo volto. — Può anche smetterla di sentirsi in colpa — le disse. — A farmi viaggiare fin qui è stata la sua chiamata, ma mentre ero in viaggio anche altri hanno richiesto un Araldo.
— Cosa? — E chi altro in quella città d’ignoranti ne sapeva abbastanza sulla Regina dell’Alveare e sull’Egemone da desiderare un Araldo? Chi altro ignorava a tal punto l’influenza morale del vescovo Peregrino? — Se è così, perché lei è venuto a casa mia?
— Sono stato chiamato a fare l’elegia di Marcos Maria Ribeira, il suo defunto marito.
Quello era un pensiero sconcertante. — Lui! Chi potrebbe volere tener desto il suo ricordo, ora che è morto?
L’Araldo non rispose. Seduto sul letto Miro ebbe un gesto un po’ seccato. — Grego potrebbe volerlo, per dirne uno. L’Araldo ci ha aperto gli occhi su un fatto che avremmo dovuto capire da soli: il bambino soffre per la morte di papà, ed era convinto che noi lo odiassimo, poiché tutti…
— Psicologia spicciola — sbottò lei. — Qui non mancano certo i terapisti, anche se neppure loro valgono i soldi che chiedono.
Dietro di lei, la voce di Ela disse: — Sono stata io a chiamare l’Araldo per papà, mamma. Credevo che non sarebbe arrivato prima di qualche decennio, ma ora sono felice che sia qui, visto che può farci del bene.