CAPITOLO DECIMO
FIGLI DELLA MENTE
Regola prima: Tutti i Figli della Mente di Cristo devono essere sposati, o non potranno far parte dell’Ordine; ma sono tenuti alla castità.
Prima domanda: Perché il matrimonio è necessario per tutti?
Gli sciocchi dicono: perché dovremmo sposarci? L’amore è il solo legame di cui io e la persona da me amata abbiamo bisogno. A costoro io dico: il matrimonio non è un patto fra un uomo e una donna; anche gli animali conoscono la fedeltà reciproca e allevano insieme i loro piccoli. Il matrimonio è un patto fra un uomo e una donna da una parte, e la comunità dall’altra. Sposarsi secondo le leggi della comunità significa divenirne cittadini a pieno titolo. Restare al di fuori del matrimonio è come essere uno straniero, un bambino, un fuorilegge, un accattone, e un traditore. L’unica cosa costante in ogni società umana è che soltanto coloro che ubbidiscono alle leggi, ai tabù, e alle usanze matrimoniali sono veri adulti.
Seconda domanda: Perché allora il celibato è obbligatorio per i preti e le suore?
Per separarli dalla comunità. I preti e le suore sono servitori, non cittadini. Essi amministrano in nome della Chiesa, ma non sono la Chiesa. Madre Chiesa è la sposa, e Cristo è lo sposo; preti e suore non sono che degli ospiti a queste nozze, poiché hanno rifiutato d’esser cittadini della comunità di Cristo allo scopo di servirla.
Terza domanda: Perché allora i Figli della Mente di Cristo devono sposarsi? Forse che anche noi non serviamo la Chiesa?
Noi non serviamo la Chiesa, salvo che nel modo in cui gli uomini e le donne la servono tramite il loro matrimonio. La differenza è che mentre essi trasmettono i loro geni alle generazioni successive, noi trasmettiamo la nostra conoscenza; essi sopravvivono nei cromosomi delle generazioni future, mentre noi sopravviviamo nelle loro menti. Il prodotto dei nostri matrimoni sono i ricordi, e questi non hanno minor valore dei figli di carne e sangue concepiti nel sacro vincolo dell’amore.
Il priore della cattedrale portava con sé l’ombra e il silenzio della navata odorosa d’incenso dovunque andasse: quando entrò nell’aula il mormorio degli studenti si spense, e perfino i loro respiri calarono di tono mentre lui si dirigeva alla cattedra senza guardarli.
— Dom Cristão — mormorò il priore, — il vescovo avrebbe bisogno di parlarle.
Gli studenti, quasi tutti di poco superiori ai dieci anni d’età, non erano così giovani da ignorare le relazioni un po’ tese che c’erano fra i rappresentanti del clero ed i monaci, uomini e donne, che amministravano le scuole cattoliche sui Cento Mondi. Dom Cristão, oltre ad essere un ottimo insegnante di storia, geologia, archeologia e antropologia, era anche abate del monastero dei Filhos da Mente de Cristo. La sua posizione ne faceva il primo rivale del vescovo per la supremazia spirituale su Lusitania. In un certo senso avrebbe potuto esser considerato superiore al vescovo: su molti pianeti c’era un abate per ogni arcivescovo, mentre a ogni vescovo corrispondeva un superiore (o una superiora) dei Filhos alla direzione delle scuole nella circoscrizione vescovile.
Ma Dom Cristão, come tutti i Filhos, si faceva un punto d’onore d’essere deferente con la gerarchia cattolica. All’udire la richiesta del vescovo spense il proiettore olografico e mise in libertà la classe, senza completare la lezione che stava tenendo. Gli studenti non ne furono sorpresi; sapevano che avrebbe fatto lo stesso se anche a interromperlo fosse venuto il più umile dei cappellani. Per i membri del clero era ovviamente molto lusinghiero constatare quanto fossero importanti agli occhi dei Filhos, tuttavia la cosa chiariva loro che ogni qual volta entravano nella scuola durante l’orario, le lezioni venivano del tutto scombussolate dal loro intervento. Il risultato di ciò era che i preti mettevano piede nella scuola il meno possibile, e che i Filhos, benché rispettosissimi, riuscivano a mantenere una completa indipendenza.
Dom Cristão aveva un’idea piuttosto chiara del perché il vescovo lo avesse convocato. Il dottor Navio era un uomo indiscreto, e fin da quel mattino correva voce che l’Araldo dei Defunti avesse fatto delle spaventose minacce. Dom Cristão trovava molte difficoltà nel sopportare le paure infondate dei preti quando si prospettavano un confronto contro gli eretici o gli infedeli. Il vescovo sarebbe stato su tutte le furie, e ciò significava che avrebbe subito chiesto a qualcuno di agire, anche se il comportamento migliore sarebbe stato la pazienza, l’inattività o un’opera di cauta mediazione. D’altra parte era corsa voce che quell’Araldo avesse dichiarato d’essere proprio colui che aveva fatto l’elegia per San Angelo. Se le cose stavano così non si trattava affatto di un nemico, ma al contrario di un amico della Chiesa. O almeno di un amico dei Filhos, cosa che nella mente di Dom Cristão era la stessa.
Mentre seguiva il silenzioso priore fra gli edifici delle faculdade e attraverso il giardino della cattedrale, spazzò via dal suo cuore ogni traccia di noia e irritazione. E al ritmo dei passi ripeté il suo nome monastico: Amai a Tudomundo Para Que Deus Vos Ame. Io Devo Amare Tutti Affinché Dio Ami Voi. Aveva scelto con attenzione quel nome, il giorno in cui lui e la sua fidanzata s’erano uniti all’Ordine, poiché sapeva che la sua debolezza peggiore era l’impazienza e l’ira verso gli stupidi. Come tutti i Filhos, s’era battezzato con l’invocazione più necessaria contro i suoi peccati personali; e questo era uno dei modi in cui essi si denudavano spiritualmente dinnanzi al mondo. «Non dobbiamo indossare una veste ipocrita» aveva insegnato San Angelo. «Cristo ci vestirà di virtù, come veste un campo con le margherite, ma non faremo alcuno sforzo per apparire virtuosi, con o senza merito». Dom Cristão sentì che la virtù di cui vestiva quel giorno era piuttosto sottile; il vento freddo dell’impazienza già lo faceva rabbrividire fino all’osso. Così recitò in silenzio il suo nome, e intanto pensava: il vescovo Peregrino è un dannato sciocco, ma io Amai a Tudomundo Para Que Deus Vos Ame.
— Ah, Fratello Amai — fu tutto il saluto con cui lo accolse il vescovo. Non gli dava mai il titolo onorifico Dom Cristão, anche se i più importanti cardinali non si sarebbero sentiti sminuiti nel fargli quella piccola cortesia. — È stato molto gentile a venire subito.
Navio era già seduto nella poltroncina più comoda, ma Dom Cristão non gliela invidiò: l’indolenza aveva reso grasso Navio, e ora il grasso lo rendeva indolente. Era come una malattia cronica che si nutriva di se stessa, e Dom Cristão era lieto di non esserne affetto. Per sé prese un alto sgabello privo di schienale. Avrebbe impedito al suo corpo di rilassarsi, cosa utile quand’era opportuno tenere la mente all’erta.
Quasi subito Navio si lanciò in un verboso resoconto del suo spiacevole incontro con l’Araldo dei Defunti, completo di elaborate esposizioni di ciò che l’Araldo aveva minacciato di fare se l’ostruzionismo fosse continuato. — Un commissario federale, se riuscite a immaginare tanto! Un anticlericale che osa minacciare di soppiantare l’autorità di Santa Madre Chiesa! — Oh, il sacro zelo che infiamma i membri più grassi del gregge, quando sbraitano contro il lupo in presenza del pastore, pensò Dom Cristão. Ma domandategli d’andare in chiesa almeno una domenica, e vedrete come il loro zelo si addormenterà.
Le parole di Navio avevano avuto il loro effetto: lo sguardo di monsignor Peregrino s’era fatto sempre più scuro, mentre sotto gli zigomi gli si accendevano chiazze rosse. Quando la recita di Navio finalmente terminò, l’alto prelato si volse con la faccia ridotta a una maschera di furia e guardò Dom Cristão. — E adesso che ne dice di questo, Fratello Amai!