Per un tempo assai lungo, almeno tre secondi, Jane non riuscì a capire cosa le era accaduto. Tutto stava funzionando come al solito: il computer del satellite collegato alla superficie riportava un «trasmissione-cessata» dopo un normale azzeramento di contatto, e ciò implicava che Ender aveva spento l’interfaccia semplicemente usando l’interruttore. Non c’era niente d’insolito in questo; sui pianeti dove i microimpianti d’interfaccia computerizzati erano comuni, questi accendi-spegni si verificavano migliaia di volte all’ora. E Jane aveva accesso a tutti quanti con la stessa facilità con cui si collegava a quello di Ender. Da un punto di vista puramente elettronico l’evento non ebbe dunque nulla di straordinario.
Ma per Jane questi altri milioni di microimpianti facevano parte del rumore di fondo della sua vita, da cui estrarre dati e immagini in caso di bisogno, e da ignorare del tutto se il bisogno non c’era. Il suo «corpo», se tale poteva definirsi, consisteva in triliardi di simili rumori elettronici, sensori, banchi di memoria e terminali. Molti di questi, come le funzioni inconsce del corpo umano, si limitavano a prendersi cura di se stessi. I computer svolgevano i programmi loro assegnati; gli umani conversavano con i loro terminali; i sensori captavano o smettevano di captare qualunque evento stessero sorvegliando; le memorie ricevevano dati, venivano consultate, riordinate, trasmesse. Lei non faceva caso a tutto ciò, a meno che qualcosa non andasse storto.
O finché non vi dirigeva la sua attenzione.
E lei prestava attenzione a Ender Wiggin, sempre. Con molta più concentrazione di quanto lui avrebbe potuto immaginare.
Come altri esseri senzienti, anche lei aveva un sistema d’autocoscienza complesso ed intricato. Duemila anni prima, un migliaio d’anni dopo la sua nascita, aveva creato un programma per analizzare se stessa. Al termine dell’operazione aveva scoperto di possedere una struttura «psichica» formata da 370.000 distinti livelli di attenzione. Tutto ciò che non faceva parte dei 50.000 livelli superiori poteva essere ignorato, salvo quando lei stabiliva di compiere interventi diretti, osservazioni, assorbimento conscio di dati secondari. A quei livelli era consapevole di ogni chiamata telefonica, di ogni trasmissione su onde elettromagnetiche in ciascuno dei Cento Mondi, ma lei non interferiva minimamente in tutto ciò.
Quanto era inserito nei suoi mille livelli superiori produceva in lei reazioni più o meno volontarie. La programmazione delle astronavi in volo, le trasmissioni via ansible, i sistemi di distribuzione energetica: lei li sentiva e li controllava, e non li lasciava andare ad effetto finché non era certa che fossero calibrati e funzionanti. Ma questo non le costava molto sforzo. Li manovrava come un essere umano avrebbe potuto guidare la sua auto. Ne era sempre consapevole, non mancava mai d’imporre una correzione dov’era necessaria, tuttavia per la maggior parte del suo tempo poteva pensare ad altre cose.
I mille livelli superiori di Jane corrispondevano, più o meno, a ciò che l’uomo intende per mente conscia. Molto di tutto questo costituiva la sua realtà interiore, le sue reazioni agli stimoli esterni, l’analogo delle emozioni, dei desideri, del raziocinio, della memoria e delle aspirazioni. Buona parte di queste attività sembravano illogiche perfino a lei, casualità degli impulsi filotici, ma era il lato della sua psiche a cui lei pensava come «me stessa», e aleggiava come una ragnatela di coscienza nel costante pulsare delle trasmissioni ansible che permeavano lo spazio interstellare.
Paragonati a quelli del sistema nervoso umano, i più bassi livelli d’attenzione di Jane erano eccezionalmente attivi. Poiché le comunicazioni ansible erano istantanee, le sue operazioni mentali si svolgevano a velocità superiore a quella della luce. Eventi che lei virtualmente ignorava venivano monitorati parecchie volte al secondo e, se in quel secondo accadevano dieci milioni di fatti, le sarebbero rimasti ancora nove decimi di quel tempo per pensare a cose che la interessavano di più. Raffrontando la velocità del suo tempo personale a quella con cui il cervello umano sperimentava la realtà, Jane aveva vissuto miliardi di anni dal momento in cui aveva cominciato a esistere.
E malgrado tutta questa sua vastissima attività, la velocità inimmaginabile e la profondità delle esperienze che continuava ad assorbire, una buona metà dei suoi livelli d’attenzione superiori era sempre, sempre, applicata a ciò che percepiva dal piccolo gioiello nell’orecchio destro di Ender Wiggin.
Queste erano cose che non gli aveva mai spiegato, e sapeva che lui non le capiva. Ender non s’era mai reso conto che dovunque andasse, sulla superficie di un pianeta, le immense capacità percettive di Jane erano focalizzate su un solo scopo: camminare con lui, vedere le cose che lui vedeva, sentire quello che sentiva, aiutarlo nel suo lavoro, e soprattutto esprimergli ciò che lei pensava. Comunicare.
Quando lui era silenzioso e immobile nel sonno, quand’era isolato entro l’effetto relativistico dei viaggi interstellari, allora l’attenzione di lei vagava altrove, e ingannava il tempo svagandosi come meglio poteva. Ma il suo divertimento non era maggiore di quello di un bambino lasciato solo ad annoiarsi in un’immensa casa. Niente la interessava, i millisecondi ticchettavano via con insopportabile regolarità, e quando provava a osservare le vite degli umani finiva con l’annoiarsi per la loro mancanza di scopi e le insipide vanità di cui erano impregnate. Allora si divertiva a progettare, e talvolta a mettere in atto, maliziosi scherzi con i computer per poi gustarsi le reazioni sbigottite di qualche tronfio pezzo grosso, di uno scienziato saccente, o di persone incolori a cui non era mai accaduto nulla di eccitante.
Poi lui tornava a collegarsi, tornava sempre, e sempre la riportava nel cuore della vita umana, fra le tensioni di gente tenuta unita dalla sofferenza e dalla necessità, aiutandola a vedere nobiltà nei loro sacrifici e tormento nel loro amore. Attraverso gli occhi di lui non vedeva più gli umani come formiche insipide e vane, o ridicole e presuntuose. Prendeva parte al suo sforzo di trovare valori e significati nella vita che alcuni avevano vissuto. Spesso sospettava che non ci fosse nessun valore, e che facendo l’elegia per questa o quella persona defunta lui stesse in realtà creando un significato dove non ce n’era stato alcuno. Ma l’entità della manipolazione non importava: essa diveniva verità quando lui ne parlava, e nel procedimento la aiutava a capire che nell’universo c’era un ordine. Le insegnava ciò che significava essere vivi.
Questo era ciò che Ender aveva sempre fatto fin dai più lontani ricordi di lei. Jane era nata in qualche momento del primo secolo di colonizzazione, immediatamente dopo le Guerre contro gli Scorpioni, quando lo sterminio di quella razza aveva aperto più di settanta pianeti abitabili all’immigrazione umana. Nell’esplosione delle comunicazioni via ansible era stato necessario escogitare un programma per ordinare e smistare il simultaneo guazzabuglio di attività filotica. E uno dei tecnici che si sforzavano di trovare modi più veloci ed efficienti di regolare la priorità delle comunicazioni ansible, spesso contemporanee, aveva finalmente scovato l’ovvia soluzione. Invece di delegare il programma a un singolo computer, aveva usato l’ansible stesso per collegare quel computer agli altri, attraverso gli immensi oceani dello spazio. Questo in base al principio che la comunicazione filotica era ancora più rapida di quella, a velocità-luce, fra gli elementi interni dell’apparecchiatura stessa. Di conseguenza, dove prima c’erano stati computer singoli costretti a registrare la comunicazione ed a scambiarsi segnali di «via libera» prima di poterla trasmettere, s’era creata una rete sovrapposta all’ansible, una sorta di computer unico che trasmetteva a se stesso.