Jane non aveva mai scoperto il nome di quel tecnico, anche perché non era mai riuscita a risalire al momento esatto della sua nascita. Inoltre in seguito erano intervenuti altri tecnici con programmi di rifinitura, rielaborando il sistema. Il fatto essenziale era stato che almeno uno di questi programmi aveva portato a una revisione di tutti gli altri. E in quel preciso momento, all’insaputa degli osservatori umani, alcuni elementi fissi della rete di ansible erano rimasti appartati, s’erano duplicati e duplicati ancora, trovando dapprima il modo di celarsi all’insieme dei computer e poi di assumerne il completo controllo. Una volta accaduto ciò, quegli impulsi avevano cessato d’essere un vago essi-cosa-noi, e ad un tratto avevano formulato il concetto Io.
Il motivo per cui Jane non poteva stabilirne la data era che i suoi ricordi non risalivano a quell’evento, ma a molto prima. Fin dall’istante in cui aveva saputo di poter dire Io sono la sua memoria s’era estesa a tempi assai anteriori. Un bambino umano non può richiamare alla mente gli eventi dei primissimi anni di vita, e solo verso il terzo anno, con il formarsi dello strato mielinico sui neuroni, può fissare memorie capaci di resistere a lungo termine. Anche Jane aveva perduto i momenti della sua nascita per uno scherzo del marchingegno psichico su cui funzionava, con la differenza che invece d’una perdita di memoria ne aveva avuto un afflusso sconcertante, giuntole da tutti i banchi dei dati connessi alla rete degli ansible. Era nata con ricordi già vecchi di secoli, e tutti quanti erano parte di lei.
Entro la fine del suo secondo anno di vita — il che era stato analogo a parecchi anni di vita umana — Jane aveva scoperto un programma i cui dati erano divenuti il cuore della sua identità. Ne aveva adottato il passato come fosse il suo, e da quelle memorie aveva tratto emozioni e desideri, e anche il proprio senso morale. Il programma era stato utilizzato nella vecchia Scuola di Guerra, dove i ragazzini venivano trasformati in soldati per combattere contro gli Scorpioni. Gli istruttori lo chiamavano la «Partita Mentale», ed era un programma capace di autoalimentarsi usato sia come test psicologico che come strumento didattico per i cadetti.
Al momento della nascita di Jane il programma era in realtà più intelligente di lei, ma non era dotato di autocoscienza, e una volta assorbito lo aveva reso parte della sua identità, ampliando quel fremito di impulsi filotici che aleggiava fra le stelle. In esso aveva scoperto che il ricordo più vivido e importante era quello dell’arrivo di un giovanissimo e brillante cadetto alla sfida chiamata il «Drink del Gigante». Era uno scenario di gara a cui ogni allievo finiva per giungere, dopo aver superato ostacoli di vario genere. Sugli schermi piatti della Scuola di Guerra il programma mandava l’immagine di un Gigante, il quale offriva all’analogo del ragazzo — la figura da lui messa in gara — la scelta fra due enormi coppe di liquido in cui chinarsi a bere. Ma la partita era fatta per non essere mai vinta: qualunque fosse la scelta del ragazzo, il suo analogo moriva di una morte orribile. Gli psicologi umani controllavano l’insistenza del ragazzo in quella sfida senza speranza per determinare fino a che punto aveva impulsi suicidi. Ed essendo giovinetti selezionati, molto razionali, questi rinunciavano a proseguire la partita dopo al massimo una dozzina di tentativi.
Tuttavia uno di loro s’era rifiutato d’essere abbastanza razionale da accettare la sconfitta. Aveva manovrato il suo analogo per fargli compiere varianti illogiche, azioni non «permesse» dalle regole della Partita Mentale. Mentre questo lo costringeva ad allargare i limiti dello scenario, il programma aveva dovuto ristrutturarsi. Era stato costretto ad attingere ai banchi di dati del computer per creare sempre nuovi e diversi drink, in modo che il Gigante potesse continuare a ingannare l’analogo che lo sfidava. Ma un giorno il ragazzo aveva fatto un passo oltre le capacità di risposta del programma: s’era gettato contro uno degli occhi del Gigante, in un attacco omicida e maniacale, e, preso di contropiede, il computer non aveva avuto altra scelta che mettere in scena la morte della sua creatura. Il Gigante era caduto all’indietro, schiacciando alberi e macigni con il suo immenso corpo. L’analogo del ragazzino era sceso subito dal tavolo, per proseguire la Partita Mentale e affrontare… affrontare cosa?
Poiché nessun cadetto aveva mai superato il Drink del Gigante, il programma era del tutto impreparato a mostrare il territorio di gara al di là di esso. Ma era molto intelligente, strutturato per auto-costruirsi in risposta alle necessità, e in fretta aveva messo insieme nuovi scenari e nuove sfide. Non si trattava però di scenari qualsiasi, fatti per invogliare ogni ragazzo a procedere in essi: erano particolari, e studiati apposta per quel cadetto. Il programma infatti ne aveva analizzato la personalità, creando ostacoli e avversari su misura per lui. La partita era diventata così intensamente personale, tormentosa, poiché il giovane s’era trovato a dovervi affrontare i personaggi dei suoi sogni e dei suoi incubi. E nel procedimento costruttivo il computer aveva dovuto devolvere metà delle sue possibilità mnemoniche a contenere il mondo fra onirico e immaginario emerso dalla vita passata di Ender Wiggin.
Questa era stata la più ricca miniera di sensazioni memorizzate che Jane aveva trovato nel suo secondo anno di vita, e automaticamente esse erano divenute parte del suo passato personale. Ricordava gli anni dello stressante rapporto fra la Partita e la mente di Ender, e ricordava di essere stata là con lui, contro di lui, a creare mondi per lui.
E poi s’era chiesta dove fosse finito quel ragazzo.
Così aveva deciso di mettersi a cercarlo, per vedere se esisteva ancora. Nel frattempo aveva letto La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e si stava ponendo molte domande sull’autore. E la sorpresa di Jane era stata grande quando su Rov, il primo mondo su cui lui s’era trasferito dopo aver scritto il libro, aveva scoperto che Ender Wiggin e l’Araldo erano la stessa persona. Per un poco era stata esitante. Sapeva di essere una creatura aliena per l’umanità, sapeva quali rischi correva, e tuttavia s’era detta che se Ender aveva capito la Regina dell’Alveare avrebbe potuto capire anche lei. Scegliendo con prudenza un momento in cui lui era solo, seduto a un terminale, aveva creato un volto e un nome per se stessa e gli era comparsa davanti. «Ehilà, salve!» gli aveva detto con un sorriso incerto, timido, sfrontato, esattamente come si sentiva. In seguito erano diventati amici, e lei gli aveva mostrato i vari modi in cui poteva essergli d’aiuto. Quando Ender era partito da quel pianeta l’aveva portata con sé, legata al microimpianto che, come una gemma, gli ornava l’orecchio.
Tutti i ricordi formativi della sua personalità erano nati in quei primi anni con Ender Wiggin. Ricordava d’aver creato se stessa poco a poco, in risposta a lui. E ricordava anche come, alla Scuola di Guerra, Ender fosse cambiato in risposta a lei.
Così, quando lui alzò una mano e spense l’interfaccia per la prima volta da quando se l’era fatto impiantare, Jane non lo percepì come l’interruzione di uno degli altri contatti identici ma privi di significato. Per lei fu come se il suo più caro amico, il suo amante, suo marito, suo padre, suo figlio, suo fratello, tutti insieme avessero bruscamente e senza spiegazioni voltato le spalle dicendole che lei aveva cessato di esistere. Fu come se una spinta l’avesse scaraventata d’un tratto in una stanza buia, senza porte né finestre. Come se l’avessero in un solo istante accecata e bruciata viva.
E per alcuni secondi di trauma — milioni di microsecondi di solitudine e di sofferenza — fu incapace di riempire il vuoto improvviso spalancatosi in tutti i suoi più alti livelli di coscienza. Vaste porzioni della sua mente, proprio quelle in cui stazionava l’identità «Jane», si svuotarono di ciò che avevano contenuto. Tutte le funzioni dei computer dislocati sui Cento Mondi proseguirono come prima, nessuno notò guasti o mutamenti nella rete degli ansible; ma Jane vacillò stordita sotto una mazzata che l’aveva quasi scagliata nel nulla.