— Terza cosa?
— Non vuole scambiare informazioni con gli zenador. Niente. E questo è veramente pazzesco. Noi non possiamo uscire dalla zona recintata. Ciò significa che non abbiamo modo di studiare neppure un albero. E non sappiamo niente sulla flora e la fauna di questo pianeta, eccetto per gli esemplari contenuti nel recinto: un gregge di cabras, la loro erba da pascolo, un’ecologia un tantino diversa lungo la riva del fiume, e questo è tutto. Niente sulle specie animali della foresta, nessuno scambio d’informazioni. Noi non diciamo niente agli zenador, e quando loro ci mandano dei dati lei cancella tutto senza leggere neppure. È come se costruisse intorno a noi un muro invalicabile: niente deve entrare, niente deve uscire.
— Forse ha le sue ragioni.
— Oh, è chiaro che le ha. I pazzi hanno sempre le loro ragioni. Per dirne una, odiava Libo. Lo odiava. Non permetteva a Miro di parlare di lui, non ci lasciava giocare con i suoi figli… China e io eravamo molto amiche, ma lei mi aveva proibito di portarla in casa e di andare da lei dopo la scuola. E quando Miro ha voluto diventare suo apprendista, non gli ha più rivolto la parola per degli anni. Non gli preparava neppure il posto a tavola.
Si accorse che l’Araldo dubitava di quelle parole. In realtà aveva un po’ esagerato.
— Per un anno, voglio dire. Il giorno che lui andò per la prima volta alla Stazione Zenador come apprendista di Libo, tornò a casa e lei non lo guardò e non gli disse una parola. E quando sedette a tavola, lei gli tolse il piatto e le posate di sotto il naso, come se non ci fosse. Miro rimase lì dov’era per tutto il pranzo, zitto e con gli occhi fissi su di lei, finché papà non ne poté più di quell’atteggiamento e gli gridò di andarsene fuori.
— E lui che fece, se ne andò?
— No. Lei non conosce Miro! — Ela ebbe una risata secca. — Non si azzuffa, però non cede. Non ha mai risposto alle angherie di nostro padre, mai. Non ricordo di averlo sentito replicare con una parola rabbiosa in tutta la vita. E a mia madre… be’, ogni sera lui tornava a casa dalla Stazione Zenador e si sedeva a tavola davanti al piatto, e ogni sera mia madre levava via piatto e posate, e lui restava lì finché papà gli urlava di uscire. Naturalmente, dopo una settimana papà cominciava a gridargli di andarsene appena mia madre gli aveva tolto il piatto. Mio padre ci godeva, quel bastardo, pensava che fosse divertente. Aveva sempre odiato Miro, e finalmente vedeva mamma dalla sua parte, contro di lui.
— Chi fu a cedere?
— Non cedette nessuno. — Ela si volse a guardare il fiume, conscia all’improvviso che con quelle parole stava ricoprendo di vergogna la sua famiglia davanti a uno straniero. Ma lui non si poteva considerare uno straniero, no? Quara aveva ricominciato a parlare, e Olhado provava interesse nelle cose, e Grego, anche se per poco, s’era comportato come un bambino normale. Lui non era uno straniero.
— Com’è finita? — insisté l’Araldo.
— È finita quando i maiali hanno ucciso Libo. E per dirle quanto mia madre lo odiasse, quando lui morì volle celebrare la cosa perdonando suo figlio. Quella sera Miro tornò a casa quando ormai avevamo già cenato, anzi era notte tarda. Una notte terribile, tutti erano preoccupatissimi, e i maiali ci riempivano di paura. La gente soffriva, perché non c’era nessuno che non avesse voluto bene a Libo… eccetto mamma, naturalmente. Lei restò alzata ad aspettare Miro. Lui entrò, andò in cucina e si sedette a tavola, e mamma gli mise il piatto davanti e gli servì la cena. Non disse una parola sull’accaduto. Non un cenno. Come se l’anno appena trascorso non fosse mai esistito. A metà della notte fui svegliata da un rumore, mi alzai e sentii che Miro stava piangendo nel bagno. Penso che nessuno degli altri se ne sia accorto, e io non entrai a consolarlo perché intuivo che voleva tenere per sé il suo dolore. Ma ora credo di non averlo fatto perché avevo paura di parlare. C’erano delle cose troppo angosciose nella mia famiglia.
L’Araldo annuì.
— Avrei dovuto entrare e parlargli — disse Ela.
— Sì — annuì lui. — Avresti dovuto.
In quel momento accadde una cosa sconcertante. L’Araldo s’era detto d’accordo sul fatto che lei quella notte aveva sbagliato, e sentendo le sue parole Ela seppe che erano vere, che il giudizio di lui era esatto. E tuttavia ebbe la strana impressione che questo la sollevasse di un peso, come se nell’attribuirle quell’errore con una mano, la liberasse della sofferenza con l’altra. Fu allora che, per la prima volta, ebbe un indizio di quale fosse il potere risvegliato dalle azioni di un Araldo. Non era un meccanismo confessione-penitenza-assoluzione, come quello che offrivano i preti. Era qualcosa di molto diverso: significava svelargli chi era lei, e poi capire che lei non era più la stessa persona. Significava che lei aveva fatto un errore, e che l’errore l’aveva cambiata, e che nel farglielo capire lui le aveva dato la certezza che non avrebbe rifatto lo stesso sbaglio, perché adesso era già un’altra, una persona meno spaventata, una persona capace di affrontare il dolore in sé e negli altri.
Se non sono più la ragazzina piena di paura che sentiva suo fratello piangere nel bagno e non osava parlargli, allora chi sono? Ma la corrente che frusciava attraverso la griglia sotto il recinto non aveva una risposta. Forse non le era dato di sapere chi era quel giorno. Forse era già abbastanza sapere che lei non era più quella di un tempo.
L’Araldo s’era messo le mani dietro la testa e osservava le nuvole, che ad ovest cominciavano ad arrossarsi. — Ecco, le ho detto ciò che dovevo — mormorò Ela. — Nell’archivio del laboratorio sono nascoste le informazioni riguardanti la Descolada. Questo è tutto ciò che so.
— Non proprio — osservò l’Araldo.
— È così, glielo giuro.
— Vuoi dire che le hai ubbidito? Che quando tua madre ti ha ordinato di non fare nessun lavoro teorico ti sei limitata a pensare ad altro, come voleva lei?
Ela ridacchiò. — Questo è ciò che mia madre crede.
— Dunque non hai smesso.
— Anche se lei non è una scienziata, io lo sono.
— Una volta lo era — disse l’Araldo. — Ha passato l’esame quando aveva appena tredici anni.
— Lo so — annuì Ela.
— E condivideva ogni informazione con Pipo, prima della sua morte.
— So anche questo. Era soltanto Libo che lei odiava.
— Allora dimmi, Ela, cos’hai scoperto con il tuo lavoro teorico?
— Non ho ancora tutte le risposte. Ma almeno so quali sono alcune delle domande. Questo è un inizio, no? Nessun altro sta facendo domande. È quasi comico, non le pare? Miro dice che gli xenologi framling assillano lui e Ouanda per avere più notizie, più dati, ed è solo la legge che gli impedisce di approfondire le ricerche. Eppure non un singolo xenobiologo framling ha mai chiesto informazioni a noi. Pensano soltanto a studiare la biosfera dei loro pianeti, e non fanno nessuna domanda a mia madre. Io sono l’unica che ne fa, e questo non importa a nessuno.
— A me importa — disse l’Araldo. — Bisogna che io sappia quali sono queste domande.
— OK, eccone una. Noi abbiamo un gregge di cabras, qui all’interno del recinto. I cabras non lo saltano, non lo toccano neppure. Ho esaminato e contrassegnato ogni cabras del branco, e vuole sapere una cosa? Non ci sono maschi. Sono tutte femmine.
— Una bella sfortuna — sorrise l’Araldo. — Si staranno chiedendo cosa diavolo aspettate a mettere almeno un maschio nel recinto.
— Non credo che gli importi — disse Ela. — Il fatto è che io non so neppure se i maschi esistono. Negli ultimi cinque anni ogni cabras adulta ha partorito almeno una volta. E nessuna di loro è stata montata.