— Il modo in cui lo dice… lei lo fa sembrare facile come buttar giù un compito in classe. Lei non ha idea di cosa fu scrivere La Regina dell’Alveare e l’Egemone. Non ha idea dell’agonia che gli costò… immaginare se stesso dentro una mente aliena, e venirne fuori e ritrovarsi colmo d’amore per la grande creatura che noi abbiamo annientato. Lui visse nello stesso periodo del più orribile essere umano che sia mai esistito, Ender lo Xenocida, quello che sterminò gli Scorpioni, e fece del suo meglio per ricreare ciò che Ender aveva distrutto. L’Araldo dei Defunti cercò di resuscitare ciò che era morto…
— Ma non poté farlo.
— No, lo fece! Li ha resuscitati… lei dovrebbe saperlo, se ha letto il libro! Io non so se Gesù Cristo abbia mai potuto. So solo di aver ascoltato le parole del vescovo, Peregrino, e non credo che tutti i santi messi insieme riuscirebbero a cambiare un’ostia in carne o a cancellare la millesima parte di un peccato. Ma l’Araldo dei Defunti ha riportato in vita la Regina dell’Alveare.
— E allora dove si trova?
— Qui, adesso! Dentro di me!
Lui annuì, — E in te c’è anche qualcun altro. L’Araldo dei Defunti. È questo che tu vuoi essere.
— È l’unica storia vera che io abbia mai sentito — disse lei. — L’unica di cui m’importa. È questo che lei voleva farmi uscire di bocca? Che io sono un’eretica? Che voglio dedicare il lavoro della mia vita ad aggiungere un altro libro a quelli messi all’Indice e che nessun buon cattolico leggerebbe mai?
— Ciò che volevo sentirti dire — mormorò Pipo, — era il nome di quello che sei, invece del nome di tutte le cose che non sei. Quello che sei è la Regina dell’Alveare. Quello che sei è l’Araldo dei Defunti. È una comunità molto piccola. Piccola di numero, ma grande nel cuore. Così tu scegli di non far parte di quella banda di ragazzini che si radunano con il solo scopo di escludere gli altri, e la gente ti guarda e dice: «Povera fanciulla, è così isolata». Ma tu conosci il segreto, tu sai chi sei veramente… sei il solo essere umano capace di capire una mente aliena, perché tu sei la mente aliena, e capisci cosa significa essere non-umana perché non c’è mai stato un gruppo umano che ti abbia accolto per appiccicare anche a te l’etichetta «Homo Sapiens».
— Adesso lei arriva a dire che non sono neppure umana? Dopo avermi fatto piangere come una bambina dicendo che non vuole sottopormi all’esame, dopo avermi umiliata, mi accusa di essere anche inumana?
— L’esame lo darai.
Quelle parole restarono sospese qualche attimo nell’aria.
— Quando? — sussurrò lei.
— Stasera. Domani. Comincia quando vuoi. Io interromperò il mio lavoro per farti i vari test, con tutta la fretta che ti va di metterci.
— Grazie! Grazie, io…
— Diventa l’Araldo dei Defunti. Io ti aiuterò per quello che posso. La legge mi proibisce di portare chiunque, salvo il mio apprendista, mio figlio Libo, a contatto dei pequeninos. Ma ti metteremo a disposizione ogni nostro appunto. Tutto ciò che abbiamo appreso lo condivideremo con te. Ogni nostra deduzione, ogni ipotesi. In cambio tu ci lascerai esaminare il tuo lavoro, ciò ò che scoprirai sugli schemi di evoluzione genetica di questo pianeta e che possa aiutarci a capire i pequeninos. E quando avremo imparato abbastanza, insieme, potrai scrivere il tuo libro, potrai diventare l’Araldo. Ma stavolta non l’Araldo dei Defunti. I pequeninos non sono morti.
A dispetto di se stessa, lei sorrise. — L’Araldo dei Viventi.
— Ho letto La Regina dell’Alveare e l’Egemone — disse lui. — Non riesco a pensare a un posto migliore di quel libro per trovarci il nome di ciò che sei.
Ma lei non si fidava ancora dello xenologo. Ancora non credeva a ciò che lui sembrava promettere. — Farò di tutto per venire qui spesso, continuamente. Dalla mattina alla sera.
— All’ora di andare a letto, qui chiudiamo a chiave e torniamo a casa.
— Mi avrete fra i piedi per tutto il resto del tempo. Lei si stancherà di vedermi qui. Mi griderà di andarmente. Mi terrà segreta una cosa o l’altra. Mi dirà di stare zitta e di non parlare delle mie idee.
— Non abbiamo neppure cominciato a diventare amici, e già mi tacci d’essere un imbroglione e un bugiardo, un somaro seduto in cattedra.
— Ma lei lo sarà. Gli altri lo sono, sempre. E tutti vorrebbero che io me ne andassi…
Pipo scosse le spalle. — E con ciò? Prima o poi chiunque prega Iddio che qualcun altro scompaia. Prima o poi mi capiterà di augurarmi che tu mi sparisca dagli occhi. Ma l’importante è che quando accadrà, quando mi sentirai sbraitare «Vattene, santo cielo!», tu invece faccia finta di niente e rimanga dove sei.
Era la cosa più decisamente assurda che qualcuno le avesse mai detto. — Bene, questo è pazzesco — rispose.
— Una cosa sola. Promettimi che non cercherai mai di contattare i pequeninos. Perché questo non potrei consentirlo. E se tu o qualcun altro lo facesse, la Federazione Starways chiuderebbe tutta la baracca, qui, mettendo il veto a ulteriori contatti con loro. Mi dai la tua parola? Altrimenti ogni cosa, il mio lavoro, il tuo lavoro, tutto finirà alle ortiche.
— Glielo prometto.
— Quando vuoi cominciare con i test?
— Adesso! Posso cominciare adesso?
Lui rise, divertito. Poi allungò una mano dietro di sé e senza guardare il terminale premette un pulsante. L’apparato si accese di luci pulsanti, e il primo modello genetico apparve nell’aria proiettato in tre dimensioni.
— Lei aveva già preparato l’esame — esclamò Novinha. — Era tutto pronto per i test! Sapeva che mi avrebbe dato il permesso di farli!
Lui scosse il capo. — Lo speravo. Credevo in te. Volevo aiutarti a fare ciò che sognavi di fare. A patto che fosse qualcosa di buono.
Non si sarebbe chiamata Novinha se non avesse trovato qualcos’altro di velenoso da dire. — Capisco. Lei è il giudice dei sogni.
Forse lui non capì che quello era un insulto. Si limitò a sorridere e disse: — Fede, speranza e amore… tre finestre da cui guardare gli altri. Perché non dovrei aprirle quando passi tu?
— Lei non mi ama — disse la ragazza.
— Ah! — borbottò lui. — Io il giudice dei sogni, e tu il giudice dell’amore. Benissimo, allora ti dichiaro colpevole di aver sognato, e ti condanno a lavorare duramente tutta la vita per portare in salvo i tuoi sogni da qualche parte. Spero solo che un giorno o l’altro tu non mi dichiari innocente del crimine di averti amato. — Il suo sguardo si fece pensieroso. — Persi una figlia nella Descolada. Adesso avrebbe pochi anni più di te.
— E io gliela ricordo?
— Stavo giusto pensando che non aveva nulla in comune con te.
Novinha cominciò i test. Le occorsero tre giorni per completarli, e passò l’esame con un punteggio più alto di quello che il computer attribuiva alla maggior parte degli studenti anziani. In retrospettiva, tuttavia, lei non avrebbe ricordato quei test come l’inizio della sua carriera, la fine della sua infanzia, la conferma della vocazione a cui era dedicata la sua vita. Avrebbe ripensato all’esame come al momento in cui per lei s’era aperta la Stazione Xenologia, dove con Pipo e Libo si sarebbe sentita parte di un gruppo, di una comunità, per la prima volta dal giorno in cui aveva visto calare i suoi genitori nella fossa.
Non fu facile, specialmente al principio. Novinha non poteva spazzar via d’un sol colpo l’abitudine a confrontarsi freddamente con gli altri. Pipo lo capiva ed era preparato ad ammortizzare l’impatto delle sue frasi scostanti. Per Libo, invece, la presenza di lei era una sfida. La Stazione Zenador aveva rappresentato la torre d’avorio dove lui e suo padre intrecciavano un rapporto più maturo, ed ora, senza che nessuno avesse chiesto il suo parere, s’era intromessa una terza persona. Una persona fredda, esigente, che pur avendo la sua stessa età si rivolgeva a lui come a un bambino. E lo urtava il fatto che lei fosse una xenobiologa a pieno titolo, con tutti i privilegi da adulta che ciò implicava, mentre lui era ancora un apprendista.