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Tornò accanto all’albero-madre. Urlatrice e Human erano lì ad attenderlo.

— Chiedile scusa per questa interruzione — disse Ender.

— Tutto bene — rispose Human. — Le ho detto quello che stavi facendo.

Ender trasalì. — E cosa le hai detto?

— Ho detto che loro due volevano fare qualcosa alle piccole madri, per farle diventare più uguali agli umani, ma che tu hai risposto che non devono farlo mai oppure riaccenderai il recinto. Le ho detto che tu vuoi che i Piccoli e gli umani rimangano quelli che sono.

Ender sorrise. Se la traduzione era stata quella, Human aveva avuto il buon senso di dire la verità senza entrare nei particolari. Esisteva anche l’ipotesi che le mogli volessero davvero far sopravvivere le piccole madri fino all’età adulta, senza capire quali conseguenze a catena sarebbero nate da un atto apparentemente positivo e umanitario. Human era un buon diplomatico: riusciva a mentire anche quand’era costretto a dire la verità.

— Bene — approvò Ender. — Ora che ci siamo conosciuti tutti, è tempo di cominciare a parlare seriamente.

Si accovacciò sul nudo terreno. Urlatrice si gettò a sedere nella polvere di fronte a lui e cantò alcune frasi melodiose.

— Lei dice che tu devi insegnarci tutto ciò che sai, farci andare sulle stelle, portare qui la Regina dell’Alveare, e regalarle il bastoncino luminoso che questa nuova femmina ha con sé, oppure nel buio della notte manderà i fratelli di questa foresta a uccidere tutti gli umani nel sonno, e vi appenderà alti dal suolo così non otterrete mai la terza vita — tradusse il maiale. Nel vedere l’allarme dei tre umani si affrettò a toccare Ender sul petto. — No, no, voi dovete capire. Questo non significa niente. E sempre così che si comincia, quando parliamo con un’altra tribù. Pensate che saremmo così pazzi? Noi non vi uccideremmo mai! Voi ci avete dato l’amaranto, i vasi, la Regina dell’Alveare e l’Egemone.

— Dille di ritirare questa minaccia, o non vi daremo nient’altro.

— Ma ti ripeto, Araldo, che questo non significa…

— Lei ha pronunciato quelle parole, e io non discuterò di niente finché non saranno ritirate.

Human tradusse la richiesta alla femmina.

Urlatrice balzò in piedi e cominciò a girare intorno all’albero-madre con le braccia sollevate, cantando a voce altissima.

Human si piegò verso Ender. — Si sta lamentando con la grande madre e le altre mogli del fatto che tu sei un fratello che non sa stare al suo posto. Dice che sei maleducato e che è impossibile trattare con te.

Ender annuì. — Sì, è proprio così. Adesso stiamo cominciando ad andare da qualche parte.

Di nuovo Urlatrice si lasciò cadere a terra davanti a lui. Parlò in fretta, nella Lingua dei Maschi.

— Dice che non ucciderà mai un umano, e che non permetterà che i fratelli o le mogli uccidano uno di voi. Dice che tu sei due volte più grosso di chiunque di noi, e che sai tutto, mentre noi non sappiamo niente. E dice: ora si è umiliata abbastanza perché tu voglia parlare con lei?

Urlatrice lo fissava accigliata, in attesa della risposta.

— Sì — disse Ender. — Adesso possiamo cominciare.

Novinha s’inginocchiò sul pavimento, accanto al letto di Miro. Alle sue spalle c’erano Quim e Olhado. Dom Cristão stava portando Quara e Grego a letto nella loro stanza, e quando le parole con cui rincuorava i due bambini svanirono in fondo al corridoio, nella camera rimase soltanto il respiro rauco e faticoso di Miro.

Il giovane aprì lentamente gli occhi.

— Miro! — ansimò Novinha.

Lui mandò un gemito fioco.

— Miro, sei a casa, a letto. Hai cercato di arrampicarti sul recinto acceso. Ora il dottor Navio dice che il tuo cervello è… è stato danneggiato. Non sappiamo se il danno è permanente o no. Mi senti? — Novinha deglutì un groppo di saliva. — Potresti restare… forse paralizzato, in parte. Ma almeno sei vivo, Miro, e Navio dice che oggi si può fare molto per compensare quello che… che puoi aver perduto. Capisci? Ti sto dicendo la verità. Devo dirtela. Può darsi che sarà molto dura per un po’, ma faremo tutto il possibile.

Lui mugolò qualcosa, ma stavolta non era un gemito. Sembrava che stesse cercando di parlare, senza riuscirci.

— Puoi muovere la mandibola, Miro? — domandò Quim.

Lui aprì la bocca, pian piano, e la richiuse.

Olhado protese una mano, un metro sopra la testa del fratello, e la spostò qua e là. — Riesci a muovere gli occhi? Provaci.

I globi oculari di Miro seguirono gli spostamenti della mano. Novinha gli afferrò le dita della destra. — Ti sto toccando. Puoi sentire le mie dita che piegano le tue? Le senti?

Miro mugolò ancora, raucamente.

— Chiudi la bocca per dire no - suggerì Quim, — e aprila per dire sì.

Miro chiuse la bocca e disse: — Mm.

Novinha si sentì sul punto di crollare. Malgrado si fosse sforzata di avere un tono incoraggiante, quella era la cosa più terribile mai accaduta a uno dei suoi figli. Quando Lauro aveva perduto gli occhi ed era divenuto «Olhado» — quanto aveva odiato quel nomignolo, ma ora lo usava anche lei — s’era detta che non sarebbe potuta succedere una disgrazia peggiore. Ma Miro, paralizzato, incapace perfino di sentire il contatto della sua mano… questo era un dolore troppo grande per lei. Le si era spezzato il cuore una volta, alla morte di Pipo, e una seconda volta per quella di Libo, e poi c’era stata l’angoscia venata di rimorso che aveva provato per la scomparsa di Marcão. Non era mai stata capace di dimenticare neppure il terribile vuoto che le aveva gelato l’anima il giorno in cui aveva visto calare nella fossa i suoi genitori. Ma nulla le straziava il cuore come vedere suo figlio soffrire ed essere incapace di fare qualcosa per lui.

Si alzò per uscire. Per il bene di lui doveva scappare via da lì e andare a piangere in silenzio, in un’altra stanza.

— Mm. Mm. Mm.

— Non vuole che tu vada via — disse Quim.

— Resterò, se vuoi — disse Novinha. — Ma ora devi dormire, ti prego, cerca di riuscirci. Navio dice che è meglio se dormi per un po’…

— Mm. Mm. Mm.

— Non vuole neanche dormire — disse Quim.

Novinha represse l’impulso di ribattere a Quim che non era sorda, che capiva benissimo anche da sola. Quello non era il momento per i battibecchi. E d’altronde era stato Quim a suggerire il sistema che Miro stava usando per comunicare. Aveva il diritto di ricavarne un minimo di soddisfazione, se voleva fingere d’essere la voce di lui. Era il suo modo di affermare che faceva sempre parte della famiglia, che non se n’era staccato dopo ciò che aveva saputo nel praça quel giorno. Era il suo modo di perdonarla e di chiederle perdono, così Novinha tenne a freno la lingua.

— Forse vuol dirci qualcosa — suggerì Olhado.

— Mm.

— O vuoi fare una domanda? — chiese Quim.

— Ma. Aa.

— Questa è grossa — borbottò Quim. — Se non può muovere le mani, non può neanche scrivere.

— Sem problema — disse Olhado. — Però riesce a emettere un suono. Se lo portiamo al terminale, posso far passare tutte le letture su un monitor e lui, dicendo «a» potrà indicare quella che gli interessa.

— Ci metterà un’eternità — disse Quim.

— Vuoi tentare in questo modo, Miro? — chiese Novinha.

— Aa — disse lui. Voleva.

In tre lo portarono a braccia in soggiorno e lo misero disteso sul divano. Olhado orientò verso di lui un paio di schermi, poi costruì in fretta un programma: su uno schermo allineò l’alfabeto, con una luce gialla che percorreva le lettere fermandosi mezzo secondo su ciascuna. Un paio di prove confermarono che Miro poteva emettere il suono che significava «questa lettera», trasferendola sull’altro schermo per costruire la parola desiderata.