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Aenea e io ci mettemmo il poncho; presi il piccolo zaino e dissi: «Arrivederci, Nave. Non fare niente che non farei anch’io». Poi scendemmo la scaletta morfizzata e ci ritrovammo sotto la pioggia.

Aenea mi aiutò a estrarre il kayak dal magazzino nel ventre della navetta e insieme percorremmo una viuzza scivolosa, diretti al fiume. Nella nostra precedente avventura fluviale avevo occhiali per la visione notturna, un assortimento di armi e una zattera piena di fantastici marchingegni. Quella notte avevo la torcia laser, nostro unico ricordo del viaggio fino alla Terra (tenuta al minimo per risparmiare energia, illuminava circa due metri di strada), un coltello da caccia navajo nello zaino e una piccola scorta di panini e di frutta secca. Ero pronto ad affrontare la Pax.

«Come si chiama questo posto?» domandai.

«Hannibal» rispose Aenea, cercando di mantenere la presa sullo scivoloso kayak, mentre scendevamo al fiume.

Ormai ero costretto a tenere fra i denti la torcia laser per reggere con tutt’e due le mani la prua della stupida barchetta. Quando giungemmo al punto dove la via diventava una rampa di carico che finiva nel nero torrente del Mississippi, posai il kayak, mi tolsi di bocca la torcia e dissi: «St. Petersburg». Avevo trascorso centinaia di ore a leggere i libri a stampa conservati nella ben fornita libreria della Compagnia.

Nel bagliore riflesso della torcia vidi la figura incappucciata di Aenea annuire.

«È una pazzia» dissi, muovendo il raggio della torcia lungo la via, contro la muraglia di magazzini di mattoni, sul fiume scuro. Il rumore della corrente faceva paura. Il pensiero di calarvi la barca era folle.

«Sì» disse Aenea. «Una pazzia.» La gelida pioggia le batteva sul cappuccio del poncho.

Girai intorno al kayak e presi Aenea per il braccio. «Tu vedi il futuro» dissi. «Quando ci incontreremo di nuovo?»

Teneva la testa china. Scorgevo appena una piccolissima porzione della pallida guancia al riflesso della torcia. Il braccio che stringevo sotto la stoffa del poncho sarebbe potuto essere benissimo un ramo d’albero secco, per tutta la vitalità che vi sentivo. Aenea disse qualcosa, troppo piano perché capissi, col rumore della pioggia e del fiume.

«Cosa?»

«Ho detto che non vedo il futuro!» ripeté lei. «Ne ricordo qualche parte.»

«Qual è la differenza?»

Aenea sospirò e si avvicinò. Faceva talmente freddo che le nuvolette di vapore del nostro respiro si mescolarono. Sentii il flusso di adrenalina provocato dall’ansia, dalla paura, dall’anticipazione.

«La differenza» disse Aenea «è che, se vedi il futuro, lo vedi con chiarezza; se lo ricordi, è… qualcosa di diverso.»

Scossi la testa: la pioggia mi gocciolò negli occhi. «Non capisco.»

«Raul, ricordi la festa di compleanno di Bets Kimbal? Quando Jaev suonò il piano e Kikki si ubriacò tanto da cadere lungo disteso?»

«Sì» risposi, irritato per quella discussione nel cuore della notte, sotto una tempesta, nel momento dell’addio.

«Quando è stata?»

«Cosa?»

«Quando è stata, la festa?» Dietro di noi, il Mississippi emergeva dal buio e si perdeva nel buio, con la velocità di un treno a levitazione magnetica.

«Aprile» risposi. «Primi di maggio. Non so.»

Aenea annuì. «E cosa indossava il signor Wright quella sera?»

Non avevo mai avuto l’impulso di colpire, picchiare o sgridare Aenea. Mai, fino a quel momento. «Come vuoi che lo sappia? Perché dovrei ricordarmene?»

«Prova.»

Lasciai uscire il fiato e guardai dalla parte delle scure colline, nel nero della notte. «Merda, non lo so… il completo grigio di lana. Sì, lo ricordo fermo accanto al piano, vestito di grigio. Il completo grigio con i bottoni grossi.»

Aenea annuì di nuovo. «Il compleanno di Bets fu a metà marzo» disse, superando il picchiettio della pioggia sui cappucci. «Il signor Wright non era presente, aveva l’influenza.»

«E allora?» replicai, pur sapendo benissimo dove voleva arrivare.

«Allora io ricordo frammenti del futuro» disse Aenea, con voce che pareva vicina alle lacrime. «Ho paura di fidarmi di quei ricordi. Se ti dico quando ci rivedremo, potrebbe essere come per il vestito del signor Wright.»

Rimasi in silenzio per un minuto buono. La pioggia batteva col rumore di minuscoli pugni sul coperchio di una bara. Alla fine dissi: «Già».

Aenea mi mise le braccia al collo. I poncho frusciarono. Mentre ci abbracciavamo goffamente, sentii la rigidità della sua schiena e la nuova morbidezza del suo petto.

Aenea si scostò. «Mi dai un attimo la torcia?»

Gliela porsi. Aenea scostò la copertura di nylon del piccolo abitacolo del kayak e illuminò una stretta striscia di lucido legno sotto la fibra di vetro. Un pulsante rosso, protetto da un pannello trasparente, luccicò alla pioggia. «Vedi quel pulsante?»

«Sì.»

«Non toccarlo, qualsiasi cosa accada.»

Ammetto d’essere scoppiato a ridere. Fra le cose che avevo letto nella biblioteca di Taliesin West c’erano commedie dell’assurdo come Aspettando Godot. Mi parve che qui eravamo volati in una latitudine dell’assurdo e del surreale.

«Parlo sul serio» disse Aenea.

«Perché mettere un pulsante che non bisogna toccare mai?» replicai, asciugandomi dal viso le goccioline di umidità.

«Volevo dire: non toccarlo, finché non dovrai assolutamente premerlo.»

«Come saprò di doverlo assolutamente premere, ragazzina?»

«Lo saprai» replicò lei. Mi abbracciò di nuovo. «Meglio mettere in acqua il kayak.»

Mi chinai a baciarla sulla fronte. Negli ultimi anni avevo fatto decine di volte quel gesto, quando le auguravo buona fortuna prima di una delle sue sparizioni, quando le rimboccavo le coperte, quando stava male per la febbre o era mezza morta di stanchezza. Ma appena chinai la testa per baciarla, Aenea sollevò il viso e, per la prima volta da quando ci eravamo incontrati fra la sabbia e il caos nella valle delle Tombe del Tempo, la baciai sulle labbra.

Mi pare d’avere già detto che lo sguardo di Aenea è più potente e intimo del contatto fisico di molte persone, che il suo tocco è come una scarica elettrica. Quel bacio fu… qualcosa che andava al di là. Avevo trentadue anni, quella notte ad Hannibal, sulla riva ovest del fiume noto come Mississippi, su un pianeta un tempo noto come Terra e ora perduto chissà dove nella Piccola Nube di Magellano, nel buio e sotto la pioggia, e non avevo mai provato una scarica di sensazioni come per quel primo bacio.

Mi ritrassi, turbato. La torcia laser si era spostata verso l’alto fra di noi e così vidi il luccichio degli occhi scuri di Aenea: uno sguardo di chi sa d’avere combinato una marachella, forse, o forse di chi prova sollievo come per la fine di una lunga attesa e altro, forse.

«Addio, Raul» disse Aenea. Alzò il kayak dalla sua parte.

Con la mente che vacillava, misi la prua nell’acqua scura, al fondo della rampa, e mi calai nell’abitacolo. A. Bettik l’aveva fatto apposta per me, come un abito su misura. Mentre mi sistemavo, badai a non premere accidentalmente il pulsante rosso. Aenea diede una spinta e il kayak galleggiò in venti centimetri d’acqua. Aenea mi passò la pagaia, poi lo zaino, poi la torcia laser.