«Ci accostiamo alla Uriele, signore» disse il cadetto pilota, una ragazza.
De Soya annuì. L’ASS Uriele pareva un clone della nuova Raffaele; ma, mentre la vespa decelerava e si avvicinava, il padre capitano scorse i generatori supplementari a coltello omega, gli alloggiamenti extra per le conferenze, illuminati, e le più complesse antenne trasmissioni che rendevano quel vascello l’ammiraglia della task force.
«Avviso d’accostamento, signore» disse il cadetto.
De Soya annuì e si accomodò sulla cuccetta di accelerazione due. La manovra di aggancio fu così delicata che il padre capitano non sentì il minimo sussulto, quando le ganasce di collegamento si chiusero e lo scafo della nave si morfizzò intorno alla vespa. Fu tentato di complimentarsi con la giovane pilota, ma ricadde nelle vecchie abitudini di capitano.
«La prossima volta» disse «nell’approccio finale cerca di evitare la fiammata all’ultimo secondo. L’esibizionismo non piace agli ufficiali superiori di una nave ammiraglia.»
La giovane pilota ci restò male.
De Soya le posò la mano sulla spalla. «A parte questo, hai fatto un buon lavoro. Ti prenderei a bordo della mia nave come pilota di navetta in qualsiasi momento.»
La giovane pilota si ravvivò. «Quanto mi piacerebbe, signore! Questo incarico alla stazione…» Si interruppe, rendendosi conto d’essersi spinta troppo oltre.
«Lo so» disse de Soya, fermo accanto al portello che aveva iniziato il ciclo di apertura. «Lo so. Ma per ora ringrazia il cielo di non partecipare a questa crociata.»
Il portello terminò il ciclo e si aprì. Una guardia d’onore accolse de Soya a bordo dell’ASS Uriele… l’arcangelo, se il padre capitano ricordava bene, che nel Vecchio Testamento era indicato come il capo del celeste esercito degli angeli.
A novanta anni luce di distanza, in un sistema solare a soli tre anni luce da Pacem, la prima Raffaele traslò nello spazio reale, con una violenza che avrebbe fatto schizzare il midollo dalle ossa, tagliato cellule umane come una lama arroventata taglierebbe un ragnatelide radiante e rimescolato i neuroni come se fossero biglie lasciate libere giù per un ripido pendio. A Rhadamanth Nemes e ai suoi cloni la sensazione non piacque, ma nessuno di loro emise un gemito né storse la bocca in una smorfia.
«Dov’è questo posto?» disse Nemes, guardando un pianeta marrone ingrandirsi sullo schermo. La Raffaele decelerava a 230 gravità. Nemes non se ne stava nella cuccetta antiaccelerazione, ma si reggeva a una sbarra, con l’indifferenza di un pendolare in un autobus affollato.
«Su Svoboda» disse uno dei due maschi.
Nemes annuì. Nessuno dei quattro aprì ancora bocca. La nave classe Arcangelo entrò in orbita, la navetta si staccò e sibilò nella rarefatta atmosfera.
Solo allora Nemes domandò: «Lui sarà qui?». Alcuni microfilamenti le uscivano dalle tempie e si collegavano al quadro comandi della navetta.
«Oh, sì» rispose l’altra donna.
Pochi esseri umani vivevano su Svoboda, ma fin dalla Caduta si erano radunati in cupole a campo di forza, nella zona del crepuscolo, e non avevano la tecnologia necessaria per rilevare la presenza della nave Arcangelo o della sua navetta. In quel sistema non c’erano basi della Pax. Il lato del roccioso pianeta esposto al sole ribolliva al punto che il piombo vi scorreva come acqua, mentre sul lato non illuminato la rarefatta atmosfera era sempre sul punto di solidificarsi in ghiaccio. Però nelle viscere del pianeta correvano più di ottocentomila chilometri di tunnel, ciascuno dei quali aveva una sezione quadrata di trenta metri per trenta. Svoboda era uno dei nove pianeti labirinto scoperti nei primi tempi dell’Egira ed esplorati durante l’Egemonia. Hyperion era un altro di quei nove pianeti. Nessun essere umano, vivente o defunto, conosceva il segreto dei labirinti né chi li aveva creati.
Nemes pilotò la navetta in una violenta tempesta di ammoniaca sul lato oscuro, si librò un istante di fronte a uno strapiombo di ghiaccio visibile solo agli infrarossi e sugli schermi a ingrandimento, poi ritrasse nello scafo le ali e puntò all’ingresso quadrato del labirinto. Il tunnel svoltò una volta e proseguì dritto per chilometri e chilometri. Il radar di profondità mostrava un alveare di altri passaggi più in basso. Nemes volò per tre chilometri, girò a sinistra al primo incrocio di tunnel, scese a mezzo chilometro dalla superficie, percorse altri cinque chilometri in direzione sud e poi fece atterrare la navetta.
In quel punto gli infrarossi rivelavano solo tracce di calore di camini lavici, mentre gli schermi degli amplificatori non mostravano niente. Nemes corrugò la fronte nell’esaminare gli schermi radar e accese le luci esterne della navetta.
Fin dove era possibile vedere, le pareti del corridoio perfettamente dritto presentavano file di lastre orizzontali di pietra. Su ogni lastra c’era un corpo umano nudo. Lastre e corpi continuavano fino a perdersi nel buio. Nemes lanciò un’occhiata allo schermo del radar di profondità: anche i tunnel ai livelli inferiori erano striati di lastre e di corpi.
«Fuori» disse il clone che su Bosco Divino aveva estratto Nemes dalla lava solidificata.
Nemes non si prese la briga di usare la camera stagna. L’atmosfera si precipitò fuori della navetta, con un ruggito subito dissolto. Nel tunnel c’era una traccia di pressione, sufficiente a non richiedere il mutamento di fase per sopravvivere, ma l’atmosfera era più rarefatta di quella di Marte prima che il pianeta fosse terraformato. I sensori corporei di Nemes indicavano che la temperatura si manteneva a 162 gradi centigradi sotto zero.
All’esterno, nella zona illuminata dai proiettori della navetta, una sagoma umana era in attesa.
«Buona sera» disse il consigliere Albedo. Era alto, impeccabilmente vestito in un completo grigio alla moda di Pacem. Comunicò direttamente sulla banda di 75 megahertz. Non mosse le labbra, ma col sorriso lasciò vedere denti perfetti.
Nemes e i tre cloni restarono in attesa. Nemes sapeva che per lei non ci sarebbero stati altri rimproveri o punizioni. I Tre Settori la volevano viva e funzionante.
«La ragazza, Aenea, è tornata nello spazio della Pax» disse Albedo.
«Dove?» domandò il clone femmina. Nel suo tono piatto c’era qualcosa di simile all’impazienza.
Il consigliere Albedo allargò le mani.
«Il portale…» cominciò Nemes.
«Stavolta non ci dice niente» la interruppe il consigliere Albedo. Il suo sorriso era rimasto immutato.
Nemes corrugò la fronte. In tutti i secoli in cui era esistita la Rete dei Mondi dell’Egemonia, i Tre Settori di Consapevolezza del Nucleo non avevano trovato un modo di usare il portale Vuoto (quell’interfaccia istantanea che gli esseri umani conoscevano come teleporter) senza lasciare nella piega matrice una traccia di neutrini modulati.
«L’Altro…» disse Nemes.
«Ovvio» confermò Albedo. Mosse le mani in un rapido gesto, come per lasciar perdere quell’inutile argomento. «Ma possiamo ancora registrare l’attivazione. Siamo convinti che la ragazza sia fra coloro che tornano dalla Vecchia Terra sfruttando la vecchia rete di teleporter.»
«Ce ne sono altri?» disse uno dei cloni maschi.
Albedo annuì. «Pochi, all’inizio. Più numerosi, adesso. Secondo l’ultimo conteggio, ci sono state almeno cinquanta attivazioni.»
Nemes ripiegò le braccia. «Ritenete che l’Altro stia ponendo fine all’esperimento Vecchia Terra?»
«No» rispose Albedo. Si accostò alla lastra più vicina e guardò il corpo umano che vi era disteso. Si trattava di una ragazza di non più di diciassette o diciotto anni standard. Aveva capelli rossi. Un sottile strato di ghiaccio le ricopriva le pelle lattea e gli occhi aperti. «No» ripeté Albedo. «I Settori convengono sul fatto che sia solo il gruppo di Aenea a fare ritorno.»