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Infine, avevo proposto di adottare il punto di vista dell’epoca in cui la coscienza umana si sarebbe espansa ben oltre la prospettiva del presente del diciannovesimo secolo, adottando quella del pensiero costretto ad abbracciare decine di millenni. A questo scopo, avevo ideato un nuovo calendario cosmologico, basato sulla precessione degli equinozi, vale a dire la lenta inclinazione dell’asse del pianeta, dovuta alla diseguale attrazione gravitazionale del sole e della luna: un ciclo che si compie in venti millenni. Con un anno di tali proporzioni come unità, avremmo potuto misurare il nostro destino con precisione, senza ambiguità, sia nel presente, sia per tutto il tempo a venire.

Avevo sostenuto che il significato simbolico di tale rettifica avrebbe travalicato di gran lunga la sua utilità pratica, perché avrebbe segnato in modo adeguato l’alba di un nuovo secolo, annunciando all’umanità intera che un’epoca nuova di pensiero scientifico era incominciata.

È inutile dire che il mio contributo era stato del tutto ignorato, con l’eccezione di alcune risposte irriverenti, a cui avevo preferito non replicare, da parte di certi settori della stampa popolare.

Dopo tutto ciò, comunque, avevo abbandonato ogni tentativo di costruire un cronometro basato sul calendario, decidendo semplicemente di ricorrere al computo dei giorni. Poiché avevo sempre avuto una mente matematica, non mi era stato difficile convertire mentalmente il conto dei giorni in anni. Durante il mio primo viaggio, mi ero recato sino al giorno 292.495.934, il quale, considerando le correzioni degli anni bisestili, equivaleva a un giorno dell’anno 802.701 d.C. Sapevo dunque di dover procedere sino a quando i cronometri avessero indicato il giorno 292.495.940, vale a dire il giorno esatto in cui avevo perduto Weena, nonché gran parte della stima che avevo di me stesso, nell’incendio nella foresta.

Nel diciannovesimo secolo, la mia casa era situata insieme con altre, lungo il tratto di Petersham Road sotto Hill Rise, a breve distanza dal fiume. Con il trascorrere del tempo, fu demolita, lasciando il versante spoglio. Richmond Hill si trasformò con il succedersi delle ere geologiche. Gli alberi fiorirono e avvizzirono, le loro esistenze secolari compresse in pochi istanti. Il Tamigi divenne a miei occhi un nastro piatto di luce argentea per effetto dell’attraversamento temporale, e si aprì un nuovo letto, serpeggiando lentamente nel paesaggio come un grosso verme. Nuovi edifici sorsero come buffi di fumo, alcuni intorno a me, sul luogo della mia vecchia casa, sbalordendomi con le loro dimensioni e con la loro bellezza. Il ponte di Richmond della mia epoca scomparve, sostituito da un altro: un arco lungo forse un miglio che varcava il Tamigi fendendo l’aria senza sostegno apparente. Nella luce tremolante del cielo s’innalzarono torri snelle, in grado di sostenere masse immense. Rinunciai al tentativo di fotografare quei fantasmi con la mia Kodak, sapendo che la luce, per effetto della traslazione temporale, sarebbe stata insufficiente a impressionare l’emulsione. Intravidi edifici che mi parvero tanto al di sopra delle tecniche architettoniche del diciannovesimo secolo quanto poteva esserlo il gotico rispetto all’arte dei romani o dei greci. Pensai che nel futuro l’umanità fosse riuscita ad affrancarsi dalla morsa spietata della gravità: altrimenti, come sarebbe stato possibile edificare quelle costruzioni immense che si stagliavano sullo sfondo del cielo?

In breve tempo, però, il ponte sul Tamigi si macchiò di marrone e di verde, i colori dell’incuria e della degradazione; poi, in quello che mi parve un batter d’occhio, crollò, lasciando soltanto due spogli monconi sulle rive. Mi resi conto che persino quelle opere ciclopiche, al pari di tutte le altre dell’umanità, non erano altro che evanescenti chimere, destinate a non intaccare la pazienza ctonia della terra.

Provai un distacco insolito dal mondo, suscitato dall’esperienza del viaggio temporale. Ricordavo la curiosità e l’entusiasmo che avevo provato nell’osservare per la prima volta i sogni che l’architettura del futuro aveva realizzato, e le mie brevi, febbrili meditazioni sulle imprese di queste razze umane del futuro. Ma ormai avevo acquisito nuove conoscenze: sapevo che, nonostante la grandezza di quei trionfi, l’umanità sarebbe inevitabilmente regredita sotto la pressione inesorabile dell’evoluzione, fino alla decadenza e alla degradazione degli Eloi e dei Morlock.

Mi sgomentò la consapevolezza di quanto noi umani siamo o ci rendiamo ignari del trascorrere del tempo, di quanto siano brevi le nostre vite, e di quanto siano insignificanti gli eventi che premono sulle nostre piccole individualità, se soltanto li osserviamo dalla prospettiva delle immani trasformazioni della storia. Siamo meno che effimere, impotenti dinanzi alle forze ingovernabili della geologia e dell’evoluzione, le quali procedono inesorabili ma con tale lentezza che, misurate sulla scala dei giorni, neppure ci rendiamo conto della loro esistenza!

2

Una nuova visione

In breve oltrepassai l’Epoca degli Edifici Immensi. Nuovi fabbricati, meno ambiziosi benché vasti, brillarono intorno a me in un’esistenza fugace lungo tutta la valle del Tamigi, assumendo, dal punto di vista del viaggio temporale, una certa opacità che derivava dalla longevità. L’arco del sole, inclinandosi nel cielo azzurro cupo fra gli estremi dei solstizi, mi parve diventare più luminoso, e un flusso verde inondò Richmond Hill, impossessandosi della Terra, scacciando il marrone e il bianco dell’inverno. Ancora una volta entrai nell’epoca in cui il clima terrestre era mutato a favore dell’umanità.

Osservai il paesaggio, ridotto all’immobilità per effetto della velocità della macchina: soltanto i fenomeni più duraturi si aggrappavano al tempo tanto a lungo da poter essere percepiti dalla mia vista fugace. Non vidi persone né animali: neppure il passaggio di una nube. Ero sospeso in una quiete sovrannaturale. Se non fosse stato per le oscillazioni della fascia solare, e l’innaturale azzurro cupo del cielo sia di giorno sia di notte, mi sarebbe parso di essere seduto in solitudine in un parco, a tarda estate.

Secondo i cronometri, avevo percorso meno di un terzo del mio grande viaggio, anche se mi trovavo un quarto di milione di anni lontano dal secolo che conoscevo, eppure sembrava che l’epoca delle grandi costruzioni umane sulla Terra fosse già conclusa. Il pianeta era diventato il giardino in cui avrebbero vissuto le loro esistenze futili e meschine i progenitori degli Eloi. Sapevo che gli antenati dei Morlock dovevano essere già confinati nel sottosuolo, e sicuramente stavano già scavando le caverne immense in cui avrebbero ammassato i loro macchinari. Ben poco sarebbe cambiato nell’intervallo di mezzo milione di anni che dovevo ancora colmare, a eccezione della degradazione ulteriore dell’umanità e dell’identità delle vittime nei milioni di piccole tragedie spaventose che in seguito avrebbero costituito la condizione umana.

Osservai tuttavia, strappandomi a quelle speculazioni tetre, che un cambiamento si verificava effettivamente nel paesaggio, diventando poco a poco evidente. Notando qualcosa di diverso, forse nella luce, provai un turbamento che non era provocato dall’ondeggiare consueto della macchina del tempo.

Seduto sul sellino, scrutai ciò che mi circondava: gli alberi spettrali, i prati pianeggianti attorno a Petersham, le rive digradanti del placido Tamigi…

Poi, sollevando lo sguardo al firmamento appiattito dall’effetto temporale, mi resi finalmente conto che la fascia solare era stazionaria nel cielo. La Terra ruotava ancora sul proprio asse tanto rapidamente da rendere indistinto il movimento della sua stella e invisibile quello degli astri, ma la fascia solare non ondeggiava più fra i solstizi: era invece ferma e immutabile come se fosse costruita in cemento.

La nausea e la vertigine mi assalirono di nuovo con impeto, obbligandomi ad afferrare la gabbia della macchina, deglutendo nello sforzo di mantenere il controllo del mio corpo.