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In seguito, quando ritornò con le guance e il naso arrossati per il freddo, annunciando che i cavalli sarebbero stati pronti entro un’ora, lo mandai via immediatamente per un’altra commissione:

«Vai a prendere dei vestiti per me e per te, e portali qui nelle mie camere private. Ce ne andremo vestiti da Turchi».

Questo lo mise in grande allarme, che riuscì a malapena a dissimulare. Sapevo forse del complotto dei boier di mandare Basarab e i Turchi a uccidermi? Lo sospettavo?

Nei suoi occhi velati vidi la macchinazione di una mente dedita al tradimento. Non avevo ancora manifestato alcun chiaro segno di sospetto; se avessi scoperto la verità, avrei potuto facilmente ordinare alle mie guardie del corpo di ucciderlo. Era questo uno dei fatali giochi del temibile voievod — stavo posticipando la sua esecuzione per assaporarla in seguito — o era un caso che avessi scelto quel momento per lasciare, travestito, la mia roccaforte, insieme all’uomo che sarebbe stato il mio Giuda?

Se ne andò e, poco dopo, ritornò con dei vestiti: un berretto a punta, una tunica e un mantello di lana, come scudo contro il freddo. Mi aiutò a vestirmi sotto l’occhio attento dei Moldavi, mi scrutò mentre mi avvolgevo il turbante intorno alla testa, e mi guardò di traverso quando chiesi:

«Ölmeye hazirmisin?» («Sei pronto a morire?»), poiché io parlo fluentemente la lingua dei miei nemici quanto la mia, avendo trascorso la mia giovinezza prigioniero del sultano. Conosco i loro costumi, le loro abitudini, e posso passare per uno di loro.

E risi poiché, sebbene lui sia il loro lacchè — chi serve i boier serve i Turchi — non capì nemmeno una delle parole che avevo pronunciato. Anche lui rise, con i denti gialli che lampeggiavano sotto i baffi spioventi, tanto simili ai miei, pensando che il mio divertimento nascesse dalla mia efficace imitazione.

Poi mi avviai verso la parete e sollevai dal suo posto d’onore una grande scimitarra, che luccicava alla luce del fuoco, e con il fodero ricurvo. Me la assicurai alla cintura, poi gli intimai:

«Vestiti».

Così fece, e io osservai con silenziosa ammirazione un corpo piccolo di statura ma muscoloso, ampio di petto e di spalle. Le sue cicatrici erano meno numerose delle mie — non si era cimentato tanto spesso in battaglia quanto me — e gli mancava un incisivo, ma le somiglianze erano abbastanza.

Dopo un po’, arrivò di corsa un ragazzo dicendo che le cavalcature erano pronte. Ma io non volevo affrettarmi. Avevo cominciato quella recita ed ero obbligato a finirla, poiché sarebbe stata il mio ultimo ricordo da mortale. Avevo saputo dall’Oscuro Signore nel Cerchio l’ora dell’arrivo di Basarab, per cui sapevo di essere ancora al sicuro, e inoltre non avevo intenzione di porre fine all’ansia di Gregor. Che aspettasse! Che soffrisse nell’incertezza… cosa che stava facendo in quel momento, camminando su e giù nei suoi vestiti turchi, pregando che io cambiassi idea e rimanessi per essere ucciso.

Se non ci fossero le guardie, ora si arrischierebbe a tentare di uccidermi. So che, quando saremo soli a cavallo, cercherà la prima opportunità; ma per quello, sono pronto.

Non devo morire adesso! Non quando sono così vicino al tocco dell’Oscuro Signore e all’Eternità…

Snagov Monastery, 28 dicembre. Cavalcammo verso nord su due stalloni neri, prima lungo le sponde della Dimbovita, e poi, attraversato il terreno gelato, nella foresta di Vlasia, tra rami nudi e sempreverdi. L’aria, grigia per il fumo e la tempesta imminente, era carica di uno strano odore leggero: di lampi, di ferro brandito, di sangue e di neve.

Galoppai a tutta velocità, con il vento che mi pungeva gli occhi, tenendo Gregor dietro di me: forse era pericoloso, ma l’avevo visto vestirsi, e sapevo che non portava armi tranne la spada alla cintura. Se desiderava uccidermi in quel momento (ed era così), avrebbe dovuto superarmi, farmi cadere dal cavallo, e uccidermi prima che potessi tirare fuori la mia spada.

Forse la singolare intenzione che lesse nei miei occhi lo spaventò; se fu così, fu saggio ad avere paura. Avrebbe potuto voltarsi e affrettarsi verso il sud, ritornare dal suo amato Basarab e avvertirlo della mia fuga verso nord, ma quell’azione mi avrebbe immediatamente messo sull’avviso circa il suo tradimento e avrebbe aumentato la mia possibilità di sopravvivenza.

Così procedemmo veloci sulla terra dura, sulle rocce, e sulle morte foglie scricchiolanti, finché raggiungemmo le rive di un grande lago gelato, dalla superficie di un colore biancastro opaco, sporcato da vortici di scuro materiale galleggiante. Al suo centro c’era la fortezza dell’isola di Snagov, con le cupole a spirale della Cappella dell’Annunciazione che si innalzavano da dietro alte mura sul bordo dell’acqua.

Scesi da cavallo e snudai la spada — con un sorriso per alleviare la crescente trepidazione di Gregor — e condussi la mia cavalcatura sul ghiaccio.

«Non c’è bisogno di portare le tue armi», dissi al mio incerto compagno. «La mia spada è più che sufficiente a proteggerci».

Gli feci quindi cenno di precedermi attraverso il fiume verso il grande cancello di ferro.

Nei suoi occhi lessi ancora una volta un attimo di indecisione: avrebbe dovuto uccidermi in quel momento e ritornare all’esercito di Basarab come un eroe, oppure avrebbe dovuto sperare in un’opportunità all’interno delle mura di Snagov e avventurarsi sul ghiaccio (era mio diritto come sovrano richiedere che qualcun altro provasse la forza del ghiaccio)? Perché avevo snudato la spada? Era soltanto un’altra delle eccentricità del Principe, o avevo intuito l’inganno?

Un lampo di paura attraversò i suoi lineamenti. Io ero, dopotutto, Dracula, il figlio del Demonio, il combattente indomito la cui follia e la cui audacia non conoscevano limiti. Io ero entrato di notte a cavallo nel campo di Mehmed, e avevo ucciso un centinaio di Turchi addormentati con la spada che ora stringevo tra le mani. Se avesse tirato fuori la sua arma e mi avesse sfidato apertamente, sarebbe stato lui a sopravvivere?

Con un debolissimo sospiro scivolò giù dalla sua cavalcatura e condusse l’animale sul lago ghiacciato. Così ci avviammo verso il santuario, con gli zoccoli dei cavalli che risuonavano a vuoto sul ghiaccio, smuovendo piccole volute di nebbia.

Finalmente arrivammo al grande muro di pietra che avevo fatto costruire durante il mio regno, e che aveva trasformato il villaggio monastico dell’isola in una fortezza, più adatta a proteggere il tesoro del regno valacco. Intorno a quel muro c’erano degli alberi, con i rami nudi che si afferravano alle pietre come a chiedere di entrare.

Un grido arrivò da una torre di guardia mentre la sentinella ci avvistava; misi le mani a imbuto intorno alla bocca e gridai una risposta che riecheggiò sulla pietra. Ci muovemmo verso l’alto cancello di legno rafforzato con dei pali, e aspettammo a disagio sul ghiaccio: io mi fermai in modo da restare dietro a Gregor. L’indecisione, la tensione, la colpa, potevano facilmente leggersi dall’inclinazione delle spalle dell’uomo. Restammo senza parlare a guardare i primi fiocchi di neve volteggiare silenziosamente verso il basso, pungendo le mie guance come fredde lacrime.

Finalmente il grande cancello si aprì scricchiolando sui cardini arrugginiti e fummo accolti da due guardie armate, che si inchinarono immediatamente quando si furono accertate che il loro visitatore era realmente il Principe di Valacchia. Ordinai a uno di condurre i cavalli nella stalla e di portare del cibo, e all’altro di accompagnarci, con il pretesto di accendere un fuoco.

Ci inoltrammo tutti e tre insieme sulla strada di ghiaccio e fango oltrepassando l’alta torre di guardia, la bella cappella e il grande monastero, salendo poi verso il palazzo che avevo fatto erigere in giorni migliori. Quel pensiero evocò in me una vampata di rabbia: Gregor non meritava di porre piede in quel luogo costruito con il sangue di leali sudditi, un santuario caro al mio cuore e che non avrei mai più rivisto dopo quella notte.