Insistette per spingere lui stesso la sedia. Lo condussi direttamente all’ascensore (qui è una necessità: trascinare di sopra o di sotto un paziente violento è un lavoro pericoloso). Nell’assoluta privacy dell’ascensore attesi una spiegazione circa la sua “missione segreta”, ma non mi disse nulla. Così chiacchierai del più e del meno e chiesi notizie di sua madre, una vera gentildonna inglese che avevo conosciuto ed ero arrivato ad ammirare profondamente.
«Sta morendo», disse, nella sua opaca e concreta maniera olandese. «Tumore ulceroso del seno destro. Lo ha da più di un anno, ma adesso le manca poco; è arrivato al cervello. La mia preoccupazione è che possa morire mentre sono via».
Gli poggiai una mano sulla spalla. Raramente l’ho toccato se non per stringergli la mano per dargli il benvenuto o per salutarlo, e lui rispose al gesto con un’occhiata piena di gratitudine (c’è qualcuno a cui piace stringere la mano più che ai suoi connazionali?).
«Sono più dispiaciuto di quanto le parole possano esprimere. Fu così gentile con me quando entrambi veniste in visita! Arrivai a pensare a lei come a mia nonna, dato che io non ne ho conosciuta nessuna».
A quell’ultimo commento, sussultò in silenzio, come se fosse stato colpito allo stomaco, e distolse lo sguardo; penso che l’emozione lo avesse sopraffatto. Dopo un momento di silenzio, disse:
«Non ho intenzione di procurarvi un fastidio, amico John, con le mie difficoltà. Avete sopportato più di quello che è sopportabile, nella vostra breve vita. Siete troppo giovane per aver fatto esperienza di una tale perdita, troppo giovane. Alla mia età, ce lo si aspetta».
Si riferiva, naturalmente, alla morte di mio padre avvenuta sedici anni fa, e a quella di mia madre, fa tre anni il prossimo autunno. La proprietà di famiglia è troppo grande e solitaria per un unico erede, così ora la divido con i miei pazienti.
Infine arrivammo alle due celle più vicine alla mia camera da letto, che io preferisco lasciare libere a meno che l’Istituto non sia proprio pieno. Dato che, al momento, abbiamo soltanto tre residenti, Uno dei quali penso di dimettere a breve termine, il più vicino ospite si trovava a una distanza di una mezza dozzina di celle. Van Helsing avrebbe avuto la sua privacy.
«Ecco», dissi, aprendo con la chiave e poi spalancando le porte che conducevano in ogni stanza, in modo che il professore potesse guardarvi dentro.
Una cella era senza finestre e conteneva l’usuale mobilia: letto, comodino, e una lampada a gas montata così in alto sul muro che poteva essere accesa o spenta soltanto da un inserviente con uno speciale congegno attaccato a un lungo manico di scopa. L’altra l’avevo preparata personalmente per il professore. La finestra con la grata guardava direttamente sul giardino fiorito (che quest’estate è particolarmente bello e rigoglioso), e avevo coperto il letto con una coperta imbottita cucita da mia madre. Avevo anche aggiunto uno scrittoio e una comoda sedia che fronteggiava la finestra, e accanto all’irraggiungibile luce a gas avevo lasciato un lungo palo in modo che il professore potesse controllare la luce come preferiva.
Tolsi due chiavi dall’anello da secondino che portavo alla cintura, e gliele porsi.
«Questa è vostra… e questa è la chiave della camera della signora».
«Ah!», disse, fissandole e poi guardando di nuovo le stanze. «Questa», e fece un gesto verso la stanza più assolata e più bella che avevo destinato a lui, «la lascerò a lei. L’altra per me va bene».
E, prima che potessi protestare, la spinse nella cella, oltrepassandomi, la sollevò dalla sedia a rotelle e la depositò nella sedia più comoda che guardava verso il giardino. Era piuttosto frustrante perché, se la signora era veramente catatonica, quella vista sarebbe stata del tutto sprecata e io non ero certo felice di lasciare il frutto del lavoro di mia madre nelle mani di una pazza.
Li seguii all’interno, chiedendomi se sarebbe stato maleducato parlare a voce alta, quando il professore tolse il cappello e il velo alla sua paziente.
Trattenni il respiro. La donna era completamente pelle e ossa ma, nello stesso tempo, giovane e innaturalmente graziosa, con enormi occhi neri e capelli molto scuri raccolti sulla nuca. Eppure…
Sbattei le palpebre e per un istante mi trovai a guardare una donna dell’età di Van Helsing, una donna con delle striature di grigio nei capelli e le zampe di gallina intorno agli occhi.
Un altro sbattere di palpebre e la signora era ancora giovane e bella, con i capelli di un intenso castano scuro senza tracce di argento. Era come se la sua gioventù fosse un velo che si era alzato per un istante, e poi si era abbassato rapidamente, mascherando la vera donna al disotto. Il terribile vuoto senz’anima in quegli occhi mezzi chiusi, rivolti verso il basso, non poteva essere nascosto; ma sotto di esso percepii un dolore senza fondo.
Infine alzai gli occhi e mi accorsi che il professore mi stava studiando, con le sue sopracciglia d’oro e d’argento che si aggrottavano intente. Quando i nostri sguardi si incontrarono — il suo consapevole, il mio interrogativo — mi chiese:
«Sei un sensitivo, John? Tu vedi sotto la facciata, vero?».
Ero troppo sorpreso per fare altro che un gesto di assenso. Lo avevo compreso nel modo giusto? Quello che mi aveva portato era un caso metafisico? Quella strana e triste donna con un viso invecchiato ma senza età? L’idea in se stessa era abbastanza irresistibile. Eppure, c’era dell’altro che mi attirava verso di lei, una strana sensazione di parentela… la sensazione che, forse, noi due condividevamo qualche segreto dolore.
Con mia grande delusione, lui non rivelò altro ma disse:
«E ora lasciamola riposare. Avrò bisogno di un po’ di tempo con lei al tramonto».
All’improvviso si chinò inginocchiandosi ai piedi di lei, come un gentiluomo che fa una proposta di matrimonio a una donna (ancora il doloroso ricordo di Lucy!). Con delicatezza, sollevò l’inerte mano guantata della donna dal grembo, e se la premette sulle labbra con una tale pura e affettuosa devozione che io ne fui onestamente scioccato. La loro relazione era evidentemente qualcosa di più che quella tra dottore e paziente.
La mia curiosità ne fu così stuzzicata che, quando uscimmo e il professore chiuse a chiave la pesante porta dietro di noi, gli domandai subito:
«Chi è?».
Lui guardò dritto davanti a sé e sospirò:
«Gerda Van Helsing. Mia moglie».
Non avrei potuto essere più stupefatto. Conoscevo il professore da più di sette anni, da quando, per la prima volta, ero arrivato all’università alla tenera età di quindici anni. Una situazione difficile: si trattava della mia prima volta lontano da casa, ed ero talmente più giovane degli altri ragazzi, da costituire continuamente il bersaglio di scherzi e derisioni (e non mi aiutava certo il fatto che sembrassi molto più giovane della mia vera età). Soltanto il professore seppe vedere al di là della mia immaturità, i miei talenti, e mi prese sotto la sua ala, paterna e professionale.
Eravamo molto vicini, forse perché io avevo perso mio padre precocemente ed ero contento di aver trovato un sostituto paterno; naturalmente, c’era anche il fatto che condividevamo la stessa passione per la medicina, e che lui vedeva in me molto di se stesso. Anche lui era stato un ragazzo prodigio che aveva conseguito la laurea in medicina a un’età molto precoce; così, mi incoraggiò molto a proseguire i miei studi medici, sebbene fossi circondato da uomini che erano quasi di dieci anni più vecchi di me (il professore ha anche la licenza per esercitare l’avvocatura in Olanda ma lui, mestamente, ammette essersi trattato di un errore).
Durante i nostri anni di amicizia — e durante la mia breve visita di un giorno a casa sua — non l’ho mai udito (e nemmeno sua madre, se è per questo) parlare della sua famiglia, o di sua moglie. Difatti, ho sempre supposto che fosse scapolo. Non gli ho mai chiesto di farmi visitare la sua camera da letto.