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Ne ho abbastanza! Per quanto sembri sciocco dirlo a voce alta, ancora mi terrorizza… specialmente dopo il mio incontro con il professore questa mattina.

Allora restai sveglio per un po’ nel letto, riluttante a ritornare a dormire (forse a sognare), riluttante ad alzarmi e accettare la fatica come mio destino. Finalmente, quando l’oscurità si rischiarò diventando grigia, mi alzai, mi lavai, mi vestii, e uscii nel corridoio per vedere se il professore era sveglio. La mia intenzione era quella di invitarlo a un’abbondante colazione, poiché aveva saltato la cena e la colazione entrambi i giorni, lasciandomi preoccupato.

La porta della sua cella era chiusa a chiave. Avevo abbandonato la speranza e mi ero appena voltato per dirigermi verso le scale, quando vidi con la coda dell’occhio la porta della camera di sua moglie leggermente socchiusa. Mi mossi verso di essa pensando di bussare ma, invece, rimasi un po’ in silenzio ad ascoltare. Dall’interno proveniva la voce del professore: il suo tono mi rassicurò che la conversazione che stava avendo luogo non era di carattere intimo.

E, in risposta, arrivò una seconda voce: quella di una donna, senza dubbio quella della sua paziente “catatonica”. La mia curiosità di medico ebbe la meglio su di me, lo confesso. Bussai leggermente, rapidamente, poi aprii spingendo la porta con tale delicatezza che non fece rumore.

Van Helsing era troppo intento per notarmi. Il suo sguardo era fisso sulla moglie seduta sulla sedia, che era stata spostata dalla sua posizione davanti alla finestra per guardare verso il professore.

Aveva un’espressione talmente animata che, per un istante, pensai di stare guardando una donna diversa. I suoi occhi scuri erano spalancati e traboccavano di divertimento e fascino, mentre le sue labbra erano curve verso l’alto in un sorriso pieno di fossette. Era vestita come una matrona con un severo abito nero e uno scialle, i capelli tirati all’indietro in una crocchia severa e poco attraente, ma il suo comportamento era quello di una debuttante eccitata. Questa mattina, l’illusione della bellezza della giovane era così forte che non ebbi alcun indizio della donna anziana che si celava al di sotto.

«Guardo attraverso il finestrino», disse graziosamente, con il mento appoggiato sopra le nocche.

E, difatti, aveva voltato la testa e sembrava guardare fuori da una finestra (mentre quella reale era alle sue spalle), come se stesse seduta su un treno a fissare la scena esterna.

«Vlad è con te?», chiese il professore, con una tale intensità da farmi comprendere che mi ero imbattuto in una seduta ipnotica. Rimasi assolutamente immobile, per non disturbare nessuno dei due, facendo sì che la signora Van Helsing non emergesse troppo rapidamente dalla trance.

Lei scosse la testa e fece una risata sprezzante.

«Non lui. Sono con il mio amore». Sospirò. «La luce del sole sulle montagne è così bella…».

Al sentire ciò, le folte sopracciglia bionde di Van Helsing si aggrottarono per l’allarme.

«La luce del sole! Sei nella tua bara? Dormi?».

Di nuovo, una risata giocosa; stupefacente, non era dovuta all’assurdità della domanda. «No, no, sono sveglia. La scena è così deliziosa, non vorrei…». Un nuovo prorompere di risate. «Elisabeth, ferma! Qualcuno ti vedrà…».

«Chi è Elisabeth? Una mortale o un Vampiro? È qualcuno che hai morso?».

Non riuscii a reprimere un piccolo sussulto. Nonostante la precedente disattenzione, Van Helsing alzò lo sguardo bruscamente; tutta l’animazione abbandonò sua moglie con la terribile subitaneità di un castello di carte che cade, lasciandola ancora una volta una creatura con gli occhi vuoti e la mascella cascante.

Per quanto riguarda il professore, si alzò con la velocità e l’incurante determinazione di un turbine di vento. Con fare incredibilmente brusco, mi afferrò per un braccio e mi fece uscire dalla stanza. Sempre tenendomi come per impedirmi di scappare, chiuse a chiave la porta della cella poi, alla fine, mi lasciò e bisbigliò con furia:

«Non lo fare più! Mai più! Capisci in che male potresti incorrere nell’ascoltare cose simili?».

Per un po’, fui troppo sbalordito per rispondere: non avevo mai visto il professore così rosso di rabbia. E che cosa intendeva dicendo che potevo incorrere nel male? Mi stava minacciando? Quando, infine, ritrovai la parola, riuscii a dire:

«Io… io volevo solo invitarvi a fare colazione, vedendo che vi eravate alzato tanto presto. Mi scuso per il disturbo ma, poiché la porta era socchiusa e vi udivo parlare, mi sono preso la libertà… io ho bussato, ma voi eravate troppo intento per udirmi».

«Allora è colpa mia!», tuonò: dico tuonò, anche se ancora bisbigliava, poiché la rabbia gli scuoteva la voce. «Hai udito cose che non avresti dovuto sentire…».

«Riguardo a mortali e Vampiri», dissi, incapace di trattenere del tutto il mio divertito scetticismo.

Ero interessato, a dire il vero, ai fenomeni occulti, e una prova certa avrebbe potuto persuadermi dell’esistenza di Vampiri… di una varietà psichica, ma un Vampiro che morde con denti aguzzi… quello era un argomento che proveniva direttamente dalle pagine di un romanzo del terrore.

Lo guardai di traverso, invitandolo a una spiegazione razionale per una domanda talmente irrazionale, una spiegazione che mi avrebbe calmato e avrebbe provocato un sorriso da parte di entrambi. In verità, nella mia mente ne avevo pensata una per lui: che stesse assecondando, per qualche ragione, le allucinazioni di sua moglie, al fine di saperne di più per poterla aiutare.

Ma la fiera intensità nei suoi occhi blu non venne meno, né lui rispose; distolse soltanto lo sguardo e intrecciò le braccia, ancora turbato. O, piuttosto, turbato nuovamente dalla sua incapacità di fornire la risposta che io desideravo ardentemente sentire. Se ci fosse stata una sedia nel corridoio, vi sarei caduto sopra, poiché fui all’improvviso sopraffatto dalla sgradevole e indubbia consapevolezza che il professore aveva posto la domanda in tutta serietà.

Emisi una breve e affannosa risata d’incredulità; il sorriso sul mio viso cominciò a trasformarsi in una smorfia di preoccupazione. Per tutti quegli anni, avevo creduto che il mio mentore possedesse i più profondi segreti dell’occulto. Il segreto poteva essere che fosse un pazzo in preda alle allucinazioni?

«Sicuramente, dottor Van Helsing, voi non siete…».

In risposta, mi afferrò ancora il braccio con una tale forza che mi interruppi, spaventato fino a stare zitto, mentre mi trascinava con sé verso la sua tetra camera.

Una volta lì, chiuse la porta dietro di noi, poi si voltò a guardarmi.

«John, ti ho veramente fatto un grande torto nel venire qui. Non resterò a lungo, ma farò immediatamente i preparativi per partire, per me e per mia moglie».

Il suo umore era un po’ più calmo, ma non meno determinato né meno arrabbiato, sebbene potessi vedere ora che la sua rabbia stava rivolgendosi interamente verso se stesso. Per qualche motivo, ciò mi infastidiva più del suo brusco e non scusabile comportamento verso di me.

«Vediamo», protestai, cercando di eguagliare la sua veemenza con un po’ della mia. Sebbene quello che avevo udito rimanesse incredibile, stava diventando sempre più chiaro — proprio come il vero viso della signora Van Helsing si era mostrato da dietro un velo di giovinezza — che il professore agiva a causa di una grave preoccupazione, non a causa di qualche attacco di pazzia. Per quanto la situazione sembrasse strana e inesplicabile, seppi in quel momento (con il più puro istinto non scientifico) che non avevo mal giudicato il mio più fidato mentore per tutti quegli anni, e che potevo ancora fidarmi di lui. «Qualunque equivoco o imbarazzo si sia appena verificato qui, non permetterò che fuggiate via. Voi siete mio ospite e un mio caro amico, professore, e la colpa è mia, non vostra. Vi giuro che non mi intrometterò più; è stata un’azione enormemente irriflessiva, per la quale mi scuso molto».