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Schioccò la lingua in segno di disapprovazione. «Ma che divertimento c’è, Zsuzsanna? Se Van Helsing muore, Vlad semplicemente si dissolverà in polvere. No, dobbiamo usare Van Helsing per attirarlo da noi. Io, per quanto mi riguarda, intendo vedere entrambe le loro morti e infliggere loro tanta sofferenza quanta essi ne hanno inflitto a te!».

«Benissimo!», acconsentii, sebbene fossi segretamente decisa a ucciderlo comunque. «Quando partiremo?»

«Non tutte e due, piccolina. Andrai tu: solo tu conosci Van Helsing e la sua casa. Io conosco Vlad, e così lo aspetterò qui; qualcuno deve controllare le sue case ogni giorno».

L’idea di lasciarla sola mi tormentava. Dal tempo di Dunya, sapevo che era capace di infedeltà; ancora più penoso era il pensiero della stanza di tortura sotto la casa. La sua irritazione era dovuta alla sua ansia di provarla? Mi aveva giurato che non l’avrebbe fatto, che “collezionava” soltanto quegli orrendi congegni per divertimento, ed era un fatto che io non li avevo ancora trovati usati.

Eppure, non mi fidavo di lei.

Fiducia o no, la logica vinse. Un giorno, mi trovai davanti alla porta di Van Helsing. Non mi travestii, ma indossai soltanto un cappello con un po’ di velo, dimodoché, se lui avesse guardato fuori, non mi avrebbe riconosciuto immediatamente. Tutto ciò di cui avevo bisogno era che aprisse la porta di uno spiraglio — non di più — e io gli avrei facilmente potuto tirare un colpo fatale.

Suonai e, dopo un buon minuto, la porta si spalancò; la donna che rispose aveva i capelli grigi e la mascella quadrata. Mary?, stavo quasi per chiedere, ma non poteva essere: quella donna era troppo grossa e alta. Per un istante, regnò la confusione: ero venuta nella casa sbagliata? Oppure i Van Helsing si era trasferiti? No, la casa era quella, e la targhetta di ottone sulla porta portava scritto A. VAN HELSING, M.D., con una frase in olandese che non riuscii a decifrare.

«Sto cercando il dottor Van Helsing», dissi esitando, in inglese.

La donna aggrottò la fronte severamente e scosse la testa. Allora tradussi la frase in francese, senza successo, ma il mio tedesco evocò un caldo sorriso.

«Ah», disse, con un accento da madrelingua e ovviamente sollevata nell’udire il proprio idioma. «Il vostro tedesco è eccellente! Ma temo che il dottore non prenda appuntamenti a quest’ora». E indicò la targhetta di ottone sopra il campanello, poi rise tra sé. «Ma, naturalmente, voi non parlate olandese!».

Sorrisi graziosamente e tirai indietro il mio velo per esporla sia alla mia bellezza che ai miei occhi ipnotizzatori.

«Io non sono una paziente, ma una parente. Sono qui in visita», aggiunsi.

Schioccò la lingua.

«Ah, povera cara! Spero che non siate venuta da lontano…».

«Da Vienna».

Sapevo, già prima che me lo dicesse, che il professore non era lì; il mio cuore si rattristò nell’apprenderlo.

«Se ne è andato». Si fermò e sembrò ritornare in sé. Feci del mio meglio per farla cadere in trance, ma lei continuava a guardare altrove, senza cooperare. Era una donna molto volitiva. «Si trova all’estero».

Distolse lo sguardo: mentiva, naturalmente. «In molti luoghi. Non ho un itinerario preciso». Poi, quando mi guardò nuovamente, mi accorsi di un’improvvisa scintilla di un sospetto nel suo sguardo. «Siete una parente? Chi siete?»

«Sua cognata».

I suoi occhi si restrinsero.

«Ho vissuto ad Amsterdam per molti anni e conosco il dottore da un po’ di tempo. Non ha fratelli».

Sospirai di onesta frustrazione, decidendo che, se non mi avesse fatto entrare di lì a pochi secondi, le avrei rotto quel grosso collo.

«So che suona strano… ma sono, in realtà, la cognata di sua madre. Vedete, il fratello di Mary era molto più giovane di lei, e…».

Il ghiaccio si sciolse, lasciandola più disponibile ma con un’espressione stranamente tragica.

«Ah, povera Mary…».

Finsi un allarmato interesse.

«È morta? Bram è un corrispondente talmente terribile; non mi dice mai niente. Gli scrissi alcune settimane fa dicendogli che stavo arrivando, ma lui non mi ha mai risposto…».

«Povera cara! Com’è terribile per voi saperlo in questo modo. No, la povera signora Van Helsing — la signora Mary, come la chiamo io — non è morta, ma temo che non ci manchi molto. È malata di cancro terminale».

Mi portai la mano guantata di pizzo alla bocca e trattenni il respiro per l’orrore.

«Allora è qui?»

«Sì, sì: la vorreste vedere?».

Tenni le labbra coperte per un altro istante, in modo che non le vedesse curvarsi verso l’alto in un sorriso.

«Moltissimo. Sono triste per non aver trovato qui Bram, ma…».

Ma potevo sapere molto da sua madre che, senza dubbio, sapeva dov’era andato. Quell’infermiera agiva chiaramente secondo degli ordini, e probabilmente non aveva idea della vera vocazione del nostro amato Bram.

Quindi spalancò la porta e mi fece entrare, stringendomi la mano con forza germanica, e la scosse con vigore mentre si presentava come Frau Koehler. L’ingresso in penombra era pieno di scaffali allineati, tutti pieni fino a scoppiare, con alcuni tomi sopra file di altri volumi. La buona Frau mi condusse, attraverso un’altra stanza polverosa e piena di libri, fino alle scale, dove esitò.

«Permettetemi di andare a dire alla signora Mary che siete qui».

Mi guardò per un momento, prima che comprendessi che stava aspettando una risposta.

«Diteglielo», mi fermai, cercando nella mia memoria il nome da ragazza di mia cognata. «Ditele che Mrs. Windham è venuta a trovarla».

Frau Koehler fece un cenno con la testa, poi alzò le gonne e si arrampicò faticosamente sulle scale che gemettero. La udii che si muoveva attraverso il pavimento di legno scricchiolante, poi si fermò per mormorare una domanda a bassa voce a colei che le era stata affidata.

Ma non udii risposta. Mentre aspettavo, vidi tra gli scaffali una porta chiusa, e me ne sentii inesplicabilmente attratta. Scivolai attraverso una fessura e mi trovai nello studio del buon dottore, circondata da altri libri, tutti di genere esoterico. Il nostro coraggioso uccisore di Vampiri sembrava avesse fatto un profondo studio per meglio compiere il suo lavoro. C’era anche una grande scrivania di quercia, con un certo numero di carte e telegrammi nei cubicoli; desiderai dar loro uno sguardo per avere qualche indizio sugli spostamenti di Van Helsing ma, da sopra la mia testa, provennero altri scricchiolii e il pesante passo della Frau.

Immediatamente scivolai nuovamente attraverso la porta e, prima che lei guardasse sorridendo dalla cima delle scale, io ero nello stesso posto in cui lei mi aveva lasciato.

«La signora Mary è sveglia e vi vedrà». Mentre sfrecciavo su per le scale per raggiungerla, aggiunse: «Non posso promettervi che capirà completamente chi siete. Parla poco e, quando lo fa, è generalmente confusa. Poco fa le ho fatto un’altra iniezione di morfina, così è anche insonnolita. Siate paziente».

«Lo sarò», risposi con calore, sebbene in quel momento non stessi affatto pensando a Mary ma, piuttosto, a come potessi convincere Frau Koehler ad andarsene.

Ero del tutto sazia dalla notte precedente, fino al punto che il pensiero di cenare con il suo forte sangue tedesco mi dava la nausea. Così non avevo intenzione di usare la mia forza soprannaturale sulla Frau; una rapida bevuta da Mary era tutto quello che potevo fare, e poi me ne sarei andata. Il mio atteggiamento disinvolto svanì all’istante quando entrai nella stanza e fui accolta dagli odori mescolati di pipì e feci puzzolenti. Frau Koehler aveva fatto quello che poteva per minimizzarli: la finestra era aperta, una candela oscillava nella leggera brezza, e una padella era a mollo nella tinozza piena d’acqua saponata.