Il massimo che potei fare fu quello di trattenermi dal coprirmi il naso con il fazzoletto, ma Frau Koehler sembrò non notarlo affatto. Si avvicinò al letto, sorrise di genuino affetto e prese la sottile mano priva di forze della paziente.
«Mary. Ecco vostra sorella».
Avanzai per prendere il posto dell’infermiera tedesca e afferrai la fredda e ossuta mano della donna morente. I suoi occhi erano chiusi ma, al suono della voce della Koehler, si riaprirono con difficoltà e mi guardarono. Ero preparata a incantarla immediatamente e farla sentire una donna completamente diversa, in modo che non avrebbe gridato di paura, mettendo in allarme l’infermiera…
Oh, Mary! quando ti vidi per l’ultima volta, eri forte, giovane e bella, con splendenti capelli d’oro, la pelle liscia, e avevi il tuo piccolo Bram nel ventre. Ti amavo allora; ti amai persino dopo il mio Cambiamento, poiché tu eri stata così buona con me in vita. Sono arrivata a capire che tu, Kasha e papà siete stati gli unici che veramente mi avete amata: amato me, la zoppa di casa, la magra zitella che non evocava negli uomini altro che pietà.
Ora tu sei stata abbattuta dal tempo crudele. Ne ho uccisi tanti nella mia strana esistenza e ho fissato spesso negli occhi la stessa morte, ma non l’ho mai vista prima indugiare tanto a lungo.
Questa sarei io, pensai, se non avessi ricevuto il dono dell’immortalità. Una vecchia brutta, moribonda.
Guardai la vecchia nel letto e non la riconobbi, con i capelli bianchi e crespi, pettinati in una lunga treccia dalle spalle alla vita; sulla testa, comunque, i capelli erano scomposti e si erano parzialmente sciolti, dandole un’aria sconvolta, poco curata. Mi venne in mente l’immagine di un uccello delicato che moriva di fame. La pelle liscia era cadente, si incavava nelle guance scheletriche, si assottigliava sul naso, ed era segnata da rughe, specialmente sotto agli occhi… occhi ancora blu come il mare, sebbene il bianco fosse itterico.
Occhi resi inespressivi dal dolore e dalla sofferenza, ma occhi che mi riconobbero.
Intendevo indurla al silenzio prima che Frau Koehler fosse messa in allarme, metterla sotto il mio incantesimo in modo che si dimenticasse di conoscermi, in modo che vedesse tutta un’altra donna, ma fui troppo colpita dalla sua vista per reagire con immediatezza e troppo confusa quando l’infermiera fece scivolare una sedia a dondolo accanto al letto e mi invitò a sedermi.
Mi sedetti e guardai ancora la vecchia che, un tempo, era stata Mary, pronta a fare il mio lavoro soprannaturale. Ma quegli occhi blu… mi guardarono senza paura, senza odio o repulsione ma con un tale onesto e caldo affetto che lacrime di gratitudine mi vennero agli occhi. Questo non era l’amore fuggevole evocato dalla passione sessuale o dal bisogno o dalla convenienza reciproca; questo era amore fine a se stesso.
«Mary?», chiesi piano e, con mia grande sorpresa, lacrime calde caddero sulle mie guance… io, cento, mille volte assassina, così insensibile da pensare che non avrei mai più conosciuto la pura compassione. «Mi riconosci veramente? Sono io…».
«Zsuzsanna», sospirò con voce tremante, acuta, che mi spezzò il cuore. Mai, per un istante, la dolcezza nel suo sguardo venne meno. «Come sei bella…».
Abbassai il viso nelle mani coperte di merletto e piansi. Era perduta nel passato, compresi, e ricordava soltanto la Zsuzsanna mortale: aveva dimenticato il mio Cambiamento. Anche così, fui toccata dal suo benvenuto. Ma avevo un’altra ragione per lasciarmi andare alle lacrime. Oltre il sentimento, ero obbligata a raggiungere il mio obiettivo: sapere di Bram.
Frau Koehler entrò dietro di me e posò una grossa mano sopra la mia spalla.
«Mia cara… So quanto questo sia difficile per voi», mormorò. «Vi posso portare un bicchiere di sherry?».
Alzai la testa e asciugai le lacrime con il fazzoletto.
«Grazie, ma… posso avere, invece, una tazza di tè?».
Questo mi avrebbe concesso il tempo di cui avevo bisogno.
Il rapido consenso della Frau mi mise subito di buon umore; se ne andò per le scale in direzione della cucina, mentre io mi chinavo più vicino a Mary e le prendevo la mano tra le mie.
«Mia cara», bisbigliai. «Non sopporto di vederti così, ma posso liberarti da tutto il dolore… per sempre».
Mi avvicinai e mi chinai ulteriormente premendole le labbra contro le morbide e cadenti pieghe del collo; l’odore aspro dell’urina era forte, così come lo erano la forte sensazione della bontà di Mary, della sua paura di morire, il suo amore sincero per coloro che se ne erano andati prima di lei e per coloro che sarebbero rimasti. L’avvicinarsi della morte aveva tolto qualsiasi altra cosa, fino a che era rimasta soltanto l’essenza della donna.
Ma qualcosa mi tratteneva; forse era la conoscenza della donna che era stata o la sensazione potente della bontà e della sofferenza tragica che emanava. Sapevo che la vera Mary avrebbe preferito morire piuttosto che votarsi al Male.
In effetti, tolse la mano dalla mia e, con una debolezza che spezzava il cuore, mise i suoi palmi contro la mia spalla e cercò, invano, di spingermi via.
«Per favore, no… ho perduto due figli e un marito. Non è abbastanza?».
Lo disse con aria sognante, calma, senza traccia di paura.
Mi ritrassi.
«Mary… vuoi soffrire? Vuoi morire?».
Sostenne direttamente il mio sguardo; nello stesso tempo, sembrò guardare oltre me, a qualcosa di molto più distante e glorioso, e la sua faccia avvizzita divenne di una bellezza radiosa e devastata.
«La mia sofferenza non è nulla a paragone della tua», bisbigliò. «La mia non durerà per sempre».
Caddi all’indietro nella sedia, colpita da un dolore acuto come se un ago trafiggesse il mio cuore commosso. Cercai di protestare: come poteva dire che io soffrivo? Io, che godevo di ciò che di meglio la vita potesse offrire, io, che non conoscevo il dolore fisico, io che infliggevo ad altri la morte?
Ma non potevo negarlo. In un lampo, vidi la mia attuale esistenza come l’avrebbe vista lei: i vestiti più belli, lo champagne migliore, gli uomini più attraenti, la bella e crudele Elisabeth. La vanità, la vacuità. Secolo dopo secolo, senza significato.
Mi alzai e le presi di nuovo le mani, massaggiandole un po’ per riscaldargliele. Questa volta, quando mi chinai su di lei, premetti con delicatezza le mie labbra sulle sue.
«Dio ti benedica, Mary».
«E possa benedire te».
Sospirò e chiuse gli occhi. Udii, al piano inferiore, il rumore della porcellana su un vassoio e dei passi attutiti; Frau Koehler stava ritornando con il tè. Mi sistemai nella sedia a dondolo e attesi, cercando di decidere il modo migliore per ritornare nello studio, quando la stessa Mary mi fornì la risposta.
Improvvisamente, emise un ululato di dolore, con l’intollerabile abbandono di un animale ferito; lo ammetto, feci un piccolo salto sulla sedia (e non è una cosa facile spaventare un Vampiro). Gridò ancora e allora mi avvicinai per chiedere quale fosse il problema, ma lei sembrò del tutto inconsapevole della mia presenza. Provai un’enorme impotenza… e imbarazzo quando, all’improvviso, lei strinse convulsamente la coperta tra le gambe.
«Frau Koehler!», gridai, mentre l’infermiera saliva per le scale rumorosamente; apparve con la faccia rossa e ansimante e, subito, posò il vassoio del tè su un basso mobile e si avvicinò accanto al letto della sua protetta.
«Ah», disse, sollevata. «È soltanto l’ora della padella. Vi aiuterò io, signora. Se volete, potete prendere la vostra tazza di tè e sedervi al piano inferiore, dove il rumore non vi disturberà».