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All’interno, il pavimento era ricoperto da uno strato di polvere spesso alcuni centimetri (com’era tipico di Vlad!), che metteva in evidenza ogni pedata degli operai. Senza lasciare delle orme, seguii la scia attraverso il corridoio, finché questo terminò davanti a una porta di quercia ad arco, rinforzata con il ferro.

Tra la base della porta e il pavimento ricoperto di polvere, c’era uno spazio piuttosto grande, e così anche tra la sommità arcuata e lo stipite. Ci si sarebbe potuti aspettare di vedere dei raggi di sole che passavano attraverso, illuminando la polvere sospesa nell’aria ma, in luogo della luce, splendeva quella sinistra e splendente aura color indaco, un’oscurità che non era assenza di luce ma una forza eguale e opposta che la poteva sostituire.

Per un breve momento rimasi sgomenta, poi chiamai a raccolta tutta la mia rabbia e il mio coraggio, e di nuovo ridussi me stessa e il mio peso a una scheggia sottile come un capello che scivolò con facilità sotto allo spazio alla base della porta, attraverso l’oscurità radiosa che sembrò permeare il mio essere.

Emersi dall’altra parte piena di trepidazione poiché, sebbene la stanza (un tempo una cappella, dato che la parete più lontana portava i segni di un grande crocifisso che era stato rimosso di recente da sopra i resti che marcivano di un altare di legno) fosse vasta e con un alto soffitto, era piena di quella splendente radiosità blu profondo che indicava la presenza di Vlad.

Mi irrigidii e con le mie armi avanzai verso la cassa dalla quale usciva la non-luce color ìndaco. A questo punto posso solo descrivere la sensazione in termini mortali, poiché l’esperienza immortale mi viene a mancare: fu come cercare di camminare all’interno e attraverso uno sciame di api molto infastidite, o nuotare contro una corrente impetuosa; mi sentii respinta all’indietro da una forza ostile e ronzante, mentre la pelle del mio corpo doleva come se fosse pizzicata.

Eccellente!

Avanzai, lottando per controllare la mia paura. Non era importante quanto Vlad potesse essere diventato potente: io credevo nella mia invisibilità e nel mio piano: raggiungere la cassa nella quale giaceva, spalancare il coperchio e, nell’istante della sorpresa, trapassargli con le mie armi d’argento sia il cuore che il collo.

Finalmente arrivai alla mia meta, e lì mi fermai per controllare i nervi mentre allungavo la mano verso il coperchio di legno chiuso con i chiodi, sebbene fossi in grado di aprirlo con solo un po’ di sforzo.

Le mie dita si curvarono intorno al bordo; tirai. Il coperchio non si mosse, ma rimase saldamente inchiodato.

Tirai di nuovo, più forte, imprecando in silenzio. Di nuovo, nessun risultato. Mi fermai, furiosa e perplessa, chiedendomi quale abilità immortale potessi usare per aprire quel coperchio impossibilmente bloccato.

O era un trucco di Vlad?

Il coperchio davanti a me esplose all’improvviso in un potente vortice che mi gettò contro la porta tra una raffica di schegge di legno e di polvere; se fossi stata mortale, sarei stata certamente uccisa all’istante. Invece, ascoltai con vero stupore il rumore della porta e quello delle mie ossa immortali che scricchiolavano… nonché il fortissimo suono metallico delle mie armi che colpivano le pietre del muro a un centimetro dalla mia testa.

Quando la tempesta cessò, facendo sì che la polvere e le schegge di legno cadessero sul pavimento sudicio con la rapidità di una tromba d’aria che lascia cadere un albero o una pecora terrorizzata, mi sedetti e guardai attraverso la luccicante oscurità: vidi che la cassa era aperta… e che all’interno c’era Vlad.

Non addormentato, ma completamente immobile come un cadavere, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi di malachite spalancati, e un sorriso di scherno sulle labbra. Adesso era un uomo giovane, non più spettrale, ma bello, con fluenti capelli del colore del carbone, e baffi. Lo guardai e provai subito sgomento e terrore.

Ero disperatamente curiosa circa il pezzo di bianca pergamena iridescente che teneva premuta tra le mani e il petto, come se fosse un grande tesoro che doveva restare vicino al suo cuore.

Le sue labbra sensuali si mossero.

«Zsuzsanna, mia cara», disse, con una voce bella, forte, divina. «Di sicuro non sei così stupida o sconsiderata da volermi fare del male. Forse sei soltanto ritornata dopo aver capito che ti eri messa dalla parte perdente».

Ero troppo sbalordita per fuggire. Chiaramente, Elisabeth aveva avuto ragione ad aver paura; sapevo che adesso mi avrebbe distrutta, non importava che menzogna potessi pensare di raccontargli. L’acuta consapevolezza di essere completamente perduta mi riempì di insensibilità e di una strana calma. Se dovevo morire, allora avrei dovuto, almeno, sapere la verità che mi era stata nascosta.

«Perdente?», chiesi. «Intendi dire Elisabeth?»

«Proprio lei», rispose, con le labbra ancora immobili. «Tu sei una sua pedina, mia cara. Lei è troppo codarda per affrontarmi da sola, e così usa te. Chiediglielo, Zsuzsanna. So che tu non credi a niente di quello che dico. Chiedi a lei dei termini del suo Patto con l’Oscuro Signore. Chiedi a lei cosa devono fare con te».

Una sgradevole ondata di terrore mi sopraffece, poiché lui parlava con la calma fiducia della verità.

«Perché adesso sei così potente? E cos’è quello.

Indicai la splendente carta nelle sue mani, chinandomi in avanti appena per vedere alcune righe di testo scritto in puro oro lucente.

Lui sorrise, ma ignorò la questione.

«Chiedi a lei che cos’è; chiedile cosa farebbe per averlo. Devi distruggerla, Zsuzsanna! Distruggila prima che lei distrugga te. Se non lo farai, non avrò altra scelta che infliggere ad entrambe la stessa deplorevole fine. Fai attenzione: non ti avvertirò ancora. E ricorda che avrei potuto distruggerti qui ora, ma ho scelto, invece, di avere pietà».

Immediatamente, la porta dietro di me si spalancò e un altro potente turbine mi spinse — furiosa, spaventata e sputando polvere — nel corridoio e poi fuori della casa, con tanta facilità quasi fossi stata una piuma e non un’immortale arrabbiata.

Fuori, mi dissolsi nella polvere, e viaggiai nella città sui raggi del sole, verso la bella casa dove Elisabeth sedeva in attesa su un divano, con i riccioli d’oro sciolti e tirati tutti da una parte così che le ricadevano in grembo. Sedeva con inusuale rigidità, con la schiena dritta e senza appoggi, le mani piegate, in modo compassato, sulle ginocchia. Per mettere alla prova me — e lei — entrai in casa con l’aura ancora ritirata, mantenendo la mia invisibilità.

Non mi vide affatto o, se lo fece, era un’attrice degna di Ellen Terry, poiché continuò a sospirare, ad aggrottare la fronte, e a guardare fuori dalla finestra come dovrebbe fare un’innamorata in pensiero; una scarpetta di raso crema batteva senza pietà su un tappeto turco del colore del sangue. Quando mi materializzai rapidamente davanti a lei, si alzò battendo le mani e gridò:

«Zsuzsanna! Mia dolce Zsuzsa! Sono stata talmente preoccupata! Sei entrata? L’hai visto? Come sei riuscita a scappare?».

Mi gettò le braccia intorno e mi baciò ripetutamente le guance e le labbra, ma io non le restituii l’abbraccio; rimasi immobile come Vlad nella sua bara e dissi:

«Hai ragione; lui è potente, tremendamente potente. Non lo posso sfidare da sola».

A queste parole lei si ritrasse, confusa dalla mia freddezza fisica ma approvando le mie parole, e mi afferrò le mani, in attesa di qualche segno che potesse spiegare quella contraddizione.

Mantenni la mia espressione solenne, le mani senza vita, e lo sguardo dritto.