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Vlad era stato acutamente consapevole della mia interferenza con Lucy Westenra. Di fatto, mi aveva quasi ucciso — una cosa impossibile da fare per un Vampiro nei confronti di un altro Vampiro — ma lo spavento che aveva attraversato il mio supposto corpo inattaccabile mi aveva quasi ucciso. Anche ora, mentre scrivo questo, sono così scossa che la mia mano riesce a malapena a tenere la penna. Che cosa lo ha reso tanto forte? E perché Elisabeth è ora così debole?

Parlando piano al mio segugio, alzai il viso verso di lui: di lui, dico ora, non di esso, poiché, nonostante la sua terribile e innata paura, percepì la mia e mi restituì lo sguardo con occhi scuri così pieni di compassione per la mia sofferenza, che non riuscii a trattenere le lacrime. Esse mi corsero lungo le guance, e quella benedetta creatura le asciugò gentilmente leccandole con la lingua, cosa questa che mi fece soltanto piangere più forte. Dio stesso non può convincermi che questo animale non abbia un’anima: in effetti, la sua è infinitamente migliore della mia.

Dopo un po’, entrambi ci calmammo e cessammo di tremare, e io penso che lui arrivò veramente a godere delle mie carezze. Poggiai la testa contro la sua spalla sottile, ascoltando il rapido battito del suo cuore, e lo circondai con un braccio mentre stava seduto; quando, infine, divenni troppo concentrata nelle mie preoccupazioni e cessai di accarezzarlo con la mia mano libera, lui la strofinò teneramente col muso.

Non avevo mai nemmeno pensato di dargli un nome, poiché l’avevo visto solo come un bell’ornamento piuttosto che un essere vivente e con dei sentimenti, ma adesso lo chiamo Amico. In effetti, è l’amico più sincero che ho. Durante tutta la mia esistenza come immortale, non ho mai incontrato una tale accettazione e un amore privo a tal punto di pregiudizi e condizionamenti.

Mentre ero seduta e lo accarezzavo, la mia mente divenne abbastanza ferma per ritornare a tutto ciò che avevo saputo da Lucy Westenra e quindi da Vlad.

Il manoscritto, il manoscritto! Non avevo alcuna ragione logica per crederlo, ma il mio istinto era chiarissimo: il suo stesso possesso doveva conferire potere. Era forse stato in possesso di Elisabeth, che lo aveva perduto a favore di Vlad, quando eravamo ancora tutti in Transilvania? Però, lui sembra, adesso, molto più forte di quanto non lo fosse lei a quel tempo.

Le righe sono sei, le chiavi sono tre. A est della metropoli ci sono gli incroci. Là giace un tesoro sepolto, la prima chiave…

Righe e chiavi… Da esse e dal loro numero non riuscivo a ricavare alcun senso, ma solo l’ovvia deduzione che un tesoro giaceva sepolto in un particolare incrocio, forse ad est di Londra. Era chiaramente un indovinello… ma a che fine?

Quella dannata chiave! Dev’essere qui…

Sicuramente non erano i pensieri di Lucy, ma quelli di Vlad, che stava meditando sull’indovinello nel momento del mio intervento. Quindi il tesoro all’incrocio — la prima chiave, qualunque fosse il suo significato — non era stata ancora scoperta. Ma Vlad si disperava per trovarla.

Mi venne un pensiero orribile: se il solo manoscritto conferiva un potere sbalorditivo, allora che cosa avrebbe fatto il possesso della prima chiave? E della seconda?

Ed Elisabeth lo aveva seguito nella speranza di riconquistare la pergamena!

Nel frattempo, Amico si era fatto talmente audace da poggiare il suo mento sul mio grembo; restai seduta ad accarezzarlo per lungo tempo, pensando a come sarebbe stato il mondo se Vlad avesse mantenuto la sua stupefacente forza, o se Elisabeth l’avesse presa da lui.

In quel momento riuscivo a ricordare soltanto le crudeltà di Vlad e le gentilezze di Elisabeth. Sì, mi aveva nascosto la verità, ma non per uno scopo malvagio; il suo peggiore crimine sembrava essere stato una mancanza di fiducia nella mia affidabilità, ma non mi aveva conosciuto abbastanza a lungo per capire che io non sono interessata al potere, ma alla pace e al piacere. Così mi alzai, ordinai ad Amico di restare fermo, e andai in cerca di Elisabeth, pronta a rivelarle tutto quello che avevo appreso quel giorno.

Non si trovava in nessuno dei suoi soliti posti: il grande studio, la camera da letto che dividevamo, il suo salotto favorito, il formale giardino francese. Ritornai nelle stanze di Antonio al piano principale per vedere se lui si trovasse lì; non c’era, cosa che mi fece pensare che, forse, l’aveva portata a fare qualche commissione.

Ma se avesse visto Antonio, avrebbe saputo che ero ritornata, ed era veramente strano per lei non salutarmi e lodare quello che avevo comperato, specialmente da quando sembrava disperatamente bisognosa di restare nelle mie grazie.

Così continuai la mia ricerca nella casa finché, alla fine, rimase soltanto un luogo: la cantina, a cui Elisabeth si riferiva affettuosamente come alla “prigione”. Una strana sensazione di terrore mi afferrò nel momento in cui misi piede sul pianerottolo che conduceva verso il basso e toccai la maniglia della porta rinforzata con il ferro. La mia reazione fu quella di nascondermi, poiché penso, adesso, che istintivamente già sapevo quello che avrei trovato.

Così scesi in silenzio le scale e, quando arrivai all’ultimo scalino, vidi ciò che avevo sempre visto: il pavimento sporco, il caminetto da lungo tempo inutilizzato, la terribile e bionda Vergine di Ferro, nonché la grande gabbia di ferro appesa, con le lunghe lance appuntite rivolte verso l’interno. E, tutt’intorno, una vasta e vuota oscurità.

Ma credetti di vedere sulla bocca della Vergine di Ferro una goccia di sangue, e così mi avvicinai sul terreno freddo, prima con un passo incerto, poi con un altro, e un altro…

Finché colsi un lampo di debole indaco e un qualcosa di fugace all’interno del cerchio: il cerchio di Elisabeth, da cui provenivano delle grida così forti, così rauche, così disperate nel loro dolore solitario, che non capii se provenissero da un uomo o da una donna, da un adulto o da un bambino, da un essere umano o da una gola animale.

Nel centro della vasta prigione, il camino scoppiettava illuminando tutt’intorno mentre, lì vicino, la gabbia di ferro oscillava sollevando il peso di due donne dal terreno. Alla carrucola stava Antonio, con il petto nudo e luccicante di sudore per il calore del fuoco; alla mia vista, sorrise, scoprendo i denti: era il sorriso invitante del demonio.

Accanto, tra il fuoco e la gabbia oscillante, si trovava Dorka, che riscaldava un lungo attizzatoio nelle fiamme, con il viso lucido per il sudore che rifletteva il chiarore del fuoco e trasformava la sua solita espressione acida in una di pura trascendenza estatica. Quando il metallo divenne incandescente, lo sollevò per il manico di scopa che vi era attaccato e lo spinse verso la gabbia nera.

O, piuttosto, verso la prigioniera che vi era dentro: una ragazza giovane, nuda, i cui riccioli castani le ricadevano sulle cosce e si mischiavano con il sangue che ne fluiva. Era una bella creatura, snella, alta, dalle gambe lunghe, con dei seni piccoli e belli ma, nella sua mortale agonia, era stata ridotta a una povera cosa urlante, priva di ogni grazia.

Era troppo presa da se stessa per notare la mia entrata; la sua unica preoccupazione era l’attizzatoio che le si avvicinava. Esso incontrò la carne tenera della gamba, e le sue grida divennero incredibilmente acute mentre si agitava, indietreggiando. Ahimè, i suoi sforzi per evitare il dolore lo accrebbero soltanto: era già stata ferita da due lunghe lance di metallo che erano all’interno della gabbia, e i suoi movimenti servirono soltanto a farle infilare più profondamente nella tenera carne e allargare le terribili ferite. Le lance trapassarono il muscolo nel senso della lunghezza, tra le costole a destra e il fianco, e la tennero ferma. In un pietoso sforzo di liberarsi ed evitare l’ulteriore impalamento, si era incuneata obliquamente tra la fila che le infilzava e quella davanti a lei; le ultime lance le aveva afferrate con le mani e cercava di spingerle via.