Ma, prima che riuscisse a liberarsi, Dorka la colpì ancora; io rabbrividii al suono sibilante della carne che bruciava e all’urlo che l’accompagnò. La ragazza respingeva coraggiosamente l’attizzatoio con le mani finché, inevitabilmente, una di esse ne fu trafitta; poi cominciò a scalciare come se avesse una remota possibilità di sopravvivenza. Ma non poteva esserci alcuna speranza; il sangue scorreva dalla ferita mortale al suo fianco, dalla ferita bruciacchiata sulla sua forte e bianca coscia, e da un taglio sulla sua altrimenti perfetta fronte.
A quella vista, provai un’amara pietà, e anche uno strano orgoglio di fronte al fatto che lei — che era così chiaramente sconfitta — si arrendesse ai suoi nemici solo quando fosse giunto il momento della morte. Non poteva esserne lontana, poiché aveva perduto una quantità incredibile di sangue: le scorreva lungo le cosce, i piedi, sul pavimento della gabbia. Se non fosse stata tenuta ferma dalle lance, sarebbe certamente caduta.
Prima di allora, non avevo mai notato lo speciale congegno del pavimento della gabbia. Era ovunque piatta con un bordo, tranne per un punto dove si inclinava verso il basso, dove si trovava un beccuccio che forzava il sangue a scorrere in un esiguo rivolo.
Sotto quel rivolo si trovava il mio amore di un tempo, con il viso rivolto verso l’alto per accogliere la gentile pioggia rossa. Ho visto Elisabeth infiammata di passione, l’ho vista nei momenti di appagamento sessuale, ma non l’avevo mai vista con una tale espressione di infinita beatitudine, di infinita soddisfazione: di fatto, guardava in alto la sua involontaria benefattrice con tutta l’adorazione e l’amore che io avevo a lungo cercato nei suoi occhi, ma che non avevo mai trovato. Nel suo grembo teneva con reverenza gli abiti della sua vittima: un semplice vestito grigio con un grembiule di cotone bianco, il vestito umile di una serva.
Per quanto riguarda il sangue che le cadeva sul viso, sui capelli e sul seno, se lo strofinava sulla pelle abbandonandosi al godimento, con l’eccitazione che saliva tanto rapidamente che mi aspettai che gridasse, da un momento all’altro, per l’estasi.
Osservai tutto questo con una repulsione così acuta che per un po’ di tempo non potei quasi credere a quello che vedevo. Poi, quando ci credetti, non riuscii a pensare né a muovermi: non potevo intervenire. Che cosa avrei dovuto dire? Cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto liberare quella povera ragazza morente e ucciderla per fermare il suo dolore? L’unica morte che io potevo offrirle non le avrebbe portato alcun vero riposo.
Sarebbe morta onestamente abbastanza presto, senza quel tormento privo di amore che la morte vivente porta con sé; così non feci niente, assolutamente niente.
Assolutamente niente tranne lasciare che un’unica lacrima di orrore e pietà mi scorresse lungo la guancia, sia per la ragazza morente che per Elisabeth. E, con il crescere dell’emozione, il mio controllo vacillò; troppo sconvolta per lottare, semplicemente lo lasciai cadere e rimasi senza protezione e senza nascondermi davanti agli attori di quella scena infernale.
La ragazza era troppo sconvolta per accorgersi della mia presenza ma, alla fine, Elisabeth percepì un cambiamento intorno a sé, abbassò lo sguardo e mi vide.
«Zsuzsanna! Cara!». La sua voce era scioccata, esasperata, infastidita… e, infine, terrorizzata; il suo volto macchiato di sangue era una maschera macabra che si oscurò rapidamente fino a diventare di un violetto scuro. Aprì le sue braccia macchiate di rosso, implorando, chiamandomi «Non mi giudicare duramente, carissima. Ciò che ho fatto, l’ho fatto per te. Vieni da me e permettimi di insegnarti la dolcezza più vera; vieni da me e abbi fiducia che tutto questo è solo per il meglio».
Non dissi una parola. Rimasi soltanto immobile e le restituii lo sguardo senza odio, senza rabbia; ma la repulsione nei miei occhi era, di per sé, un rimprovero.
Non restai su quel malvagio suolo sconsacrato oltre il tempo necessario a due battiti di cuore umano. Poi tornai al piano di sopra, presi Amico nelle braccia e me ne andai per sempre.
Capitolo undicesimo
Il diario del dottor Seward
7 settembre. Durante gli ultimi cinque giorni sono rimasto accanto a Lucy per tutta la notte; mai ho eseguito un compito più dolce e amaro. Per tutto il tempo non ho avuto notizie dal professore, e ogni giorno ho spedito il telegramma che mi aveva richiesto riguardo alle condizioni di Lucy, ad un certo “Mr. Windham”, nella vecchia casa di campagna dei miei genitori nello Shropshire. La segretezza di tutto ciò mi imbarazza, anche se ne capisco la necessità.
Per quattro giorni e quattro notti, Lucy è andata avanti piuttosto bene e ha cominciato a migliorare considerevolmente; la “magia” del professore stava sortendo degli effetti. Ma, la quinta notte, la stanchezza ebbe la meglio su di me, e Lucy (che aveva ritrovato il suo spirito) insistette affinché, invece di continuare la veglia, dormissi nella stanza adiacente sopra un comodo divano. Io rifiutai ma, poiché non riuscii a resistere completamente alle lusinghe di Morfeo, e poiché il crocifisso d’argento, che non avevo notato, era ancora al sicuro nel suo posto sopra la finestra, mi concessi un “breve sonnellino” sulla sedia.
Fu così che caddi nel sonno più profondo e non mi svegliai fino al mattino inoltrato, quando udii le voci ansiose delle cameriere:
«Oh, povera Miss Lucy!».
«Il dottore! Sveglia il dottore!».
Udii le parole attraverso il velo del sonno, ma il loro contenuto mi portò alla piena coscienza, proprio come il grido acuto di un bambino provoca una risposta immediata da parte della madre che dorme. Balzai immediatamente in piedi e seguii lo sguardo pieno d’orrore delle domestiche verso la donna sul letto.
Lì giaceva la mia dolce Lucy, i capelli d’oro sparsi sul cuscino, la pelle e le labbra di un terribile colore grigio cenere, il respiro difficoltoso. La povera ragazza riusciva a malapena a respirare. Corsi verso di lei e le presi la mano, che era molto fredda, poi diedi ordine a una delle domestiche di portare subito un bicchiere di Porto, ma di non dire niente a Mrs. Westenra, se l’avessero incontrata nel tragitto. L’altra la mandai all’ufficio del telegrafo, per spedire un telegramma a “Mr. Windham”, chiedendogli di ritornare subito a Hillingham. A Lucy ordinai di restare in silenzio, soprattutto perché non riuscivo a sopportare la sua lotta.
La cosa seguente che feci fu quella di guardare di nascosto lo stipite sopra la finestra, poiché mi aspettavo che il piccolo crocifisso fosse stato in qualche modo rimosso dal suo posto, o fosse caduto, e fosse stato raccolto da una delle cameriere.
Ma no: vidi l’argento brillare nello stesso posto in cui era stato la notte precedente, e fui preso dal panico. Come poteva essere? Avevo riposto una completa fiducia nelle spiegazioni di Van Helsing ma, adesso, un pezzo del puzzle non andava più bene. E se si sbagliava riguardo alla sicurezza assicurata da un talismano, non poteva sbagliarsi su tutto il resto?
Non c’era nient’altro da fare che sedersi accanto a Lucy ad aspettare il Porto e, quando arrivò, portai teneramente il bicchiere alle sue labbra e l’aiutai a bere, mentre lei mi guardava con un’espressione di tale dolce scusa che mi tormentò il cuore spezzato. Fece del suo meglio con il Porto, che non era molto, e poi si lasciò cadere stancamente sul cuscino, sospirò, e si addormentò.
La cameriera mi portò della cancelleria dalla scrivania di Lucy, e così scrissi frettolosamente un biglietto ad Art dicendogli dell’improvviso peggioramento della sua fidanzata, poi lo spedii con la posta di metà mattina.
Le ore nell’attesa di Van Helsing sembravano trascinarsi eternamente, specialmente quando la notte cadde ancora e lui non era ancora arrivato. La cosa peggiore era il fatto che, semplicemente, non c’era altro da fare per Lucy. Nella mia disperazione riflettei sul fatto di tentale un nuovissimo metodo sperimentale — la trasfusione di sangue — ma, poiché non c’era nessuno ad Hillingham tranne me, Mrs. Westenra e le tre giovani cameriere, non sembrava esserci nessuno adatto a donare il sangue eccetto me. Ma, anche se avessi avuto l’attrezzatura (che non avevo) sarebbe stato impossibile eseguire il metodo su di me, perché potevo svenire e così perdere sia il dottore che la paziente.