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Con dei pensieri così tetri che mi giravano per il cervello stanco, stavo seduto, lottando per mantenere un’acuta percezione verso tutti quei segni dell’avvicinarsi di Vlad che, l’ultima volta, mi erano completamente sfuggiti. Tirai fuori il Sigillo di Salomone dalla tasca della giacca e lo tenni in mano, contemplandone la lucente superficie argentata, i disegni geometrici, e le lettere ebraiche che vi erano incise sopra. La sua vista mi diede conforto e una debole speranza che forse esso e i fiori freschi di aglio, mandati giornalmente da Haarlem, sarebbero stati sufficienti per respingere Vlad.

Le ore passarono. Lucy allungò una mano per prendere una pera dal vassoio della cena, le diede un morso svogliato e poi la gettò via; quindi chiuse il libro e lo mise, anch’esso, da parte. Sperai che il sonno le venisse subito, ma emise un altro sospiro inquieto e frugò nel cassetto del comodino cercando un piccolo diario e una penna. Con questi in mano tornò a sedersi, aprì il diario e poi alzò la penna, pronta a scrivere.

L’ispirazione però le mancò e, con un piccolo verso di disgusto, li rimise a posto, quindi spense la lampada e ricadde nel letto.

Infine il cambiamento del respiro che segnalava il sonno arrivò. Mi alzai, andai al davanzale e lì, con delicatezza, deposi il Sigillo, la più potente delle protezioni magiche di cui potevo disporre per il suo bene.

Poi ritornai al mio posto e mi sedetti sulla sedia a guardarla dormire. Dopo un po’, un sommesso battito di ah si udì alla finestra. Non mi alzai per guardare fuori, poiché non c’era niente da vedere: nessuna aura, né il travestimento in animale. Ma i peli che mi si rizzarono, formicolando, sulla nuca e sulle braccia, mi dissero che il Vampiro era veramente arrivato.

Il battito d’ali divenne più forte, fino a svegliare Lucy. Anche nell’oscurità, potei vedere la sua espressione timorosa, e desiderai aver inventato una nuova bugia dicendo che il mio “viaggio” ad Amsterdam era stato cancellato, in modo da poterle parlare in quel momento, prenderle la mano, e offrirle il misero conforto che potevo. Per alcuni minuti, lei lottò chiaramente per restare sveglia; infine, la sua ansia crebbe a tal punto che si alzò e aprì la porta, gridando:

«C’è qualcuno là?».

Il corridoio rimase scuro e silenzioso, e così lei chiuse di nuovo la porta. Nel frattempo, il suono di un vicino ululato accompagnava il battere d’ali, cosa questa che la fece avvicinare alla finestra. Alzò il bordo di una tenda e sbirciò fuori; io intravidi una nera ala di pipistrello l’istante prima in cui lei gridò piano e corse nuovamente al letto.

Lì si rannicchiò miseramente, con gli occhi spalancati e piena di terrore. Il mio desiderio di confortarla divenne così forte che decisi di uscire dalla stanza, diventare visibile, e poi bussare piano alla porta, dicendo che ero ritornato presto da Amsterdam ed ero stato colto dalla sensazione che lei avesse bisogno del mio aiuto.

In effetti, mi alzai per fare proprio questo ma, in quell’istante, qualcuno bussò alla porta, e Mrs. Westenra apparve in camicia da notte; evidentemente, era stata spinta dall’istinto materno per sua figlia. Ne fui contento, poiché si infilò nel letto con lei, ed entrambe si strinsero l’una nelle braccia dell’altra e trovarono un momento di pace.

Ma si udì nuovamente il battito d’ali alla finestra, il che allarmò Mrs. Westenra che si mise a sedere a fatica, gridando:

«Che cos’è?».

Poi fu la volta della figlia che offrì rassicurazioni con carezze e parole sussurrate. Presto la madre sospirò, si risistemò contro il cuscino e, per un momento fin troppo breve, trovò pace.

Si udì un gufo… questo più vicino, come se l’animale responsabile fosse proprio sotto la finestra. Se lo scontro doveva venire, sarebbe arrivato subito: calmai la mia mente e mi concentrai sul Sigillo di Salomone alla finestra e sul suo radioso “muro” dorato di potere che solo Dio o il Demonio potevano penetrare.

L’istante successivo vi fu il dolce e alto crescendo del vetro che si rompeva e le grida delle signore Westenra, mentre una pioggia di diamanti taglienti come rasoi che proveniva dal muro d’oro di Salomone, veniva portata da un turbine così potente che la tenda fu strappata vorticosamente. Tenni gli occhi strettamente chiusi e sentii il pizzicore di minuscole schegge contro il viso e le mani. Invisibile o no, protetto o meno, fui subito sbattuto contro il muro più lontano. Improvvisamente il vento cessò, e aprii gli occhi. Una nebbia nerissima, un centinaio, anzi, un migliaio di volte più nera della notte, scivolava lentamente sui resti ineguali dei vetri, insensibile al Sigillo di Salomone, il cui bagliore dorato era stato improvvisamente spento. Non so poi quale orrore vide Mrs. Westenra: si agitò in uno sforzo isterico di mettersi a sedere, strappando nel farlo la corona di fiori di aglio dal collo di Lucy, poi indicò con vero terrore la finestra. E, con un gorgoglio strozzato, cadde morta. La sua testa colpì con grande forza quella di Lucy; io lottai per alzarmi, per aiutare la mia paziente, per mettermi tra la ragazza e il Vampiro, per offrirmi al suo posto, ma non potei muovermi: di fatto, non riuscivo a fare nulla, salvo che fissare con impotente orrore e furia ciò che accadeva. Mentre guardavo, la nebbia terminò di entrare, e formò un’alta colonna appena oltre la finestra rotta; un attimo, e la colonna si era trasformata in Vlad. Vlad come non lo avevo mai visto: vestito come un virile e azzimato giovane nobile in un completo di seta nera su misura, la pelle bianca e i denti bianchi che splendevano come perle, e i capelli d’onice che luccicavano di scintille color indaco. Così tanta vita sembrava emanare da lui, che non sembrava più un Morto Vivente, ma soltanto un uomo gloriosamente e magnificamente potente. Sorridendo, camminò con grazia verso il comodino, ignorando completamente le due donne (una morta e l’altra svenuta), poi si chinò per prendere un oggetto dal pavimento: era il Sigillo di Salomone, ora opaco e senza vita. Me lo gettò, dicendo con scherno: «È vostro, dottor Van Helsing?».

Non riuscii a dire nulla. La facilità di parola mi aveva abbandonato, e le mie gambe e la schiena sembravano inchiodati al tappeto coperto dai veni, ma le mani e le braccia ora funzionavano, così presi il talismano e lo tenni con reverenza. La mia paura più grande, in quel momento, non era la morte, e nemmeno il suo morso, bensì il fatto che non potevo più fermarlo mentre eseguiva il suo rito di morte, quel rito con cui aveva legato a sé i miei antenati, il rito per mezzo del quale rinnovava la sua immortalità, in modo che non potesse perire.

Se, in quel momento, lo avesse fatto a me, avrebbe conosciuto ogni mio pensiero… e io sarei stato il suo schiavo mortale, per portare a compimento il male che non poteva fare da solo.

Dovette leggermi i pensieri sul viso, poiché il suo sorriso di scherno si allargò.

«Quanto siete presuntuoso, signore, nel pensare che potrei aver bisogno di voi. Io non ho più bisogno di nessuno, capite? Il mondo appartiene a me, non a voi, sciocchi mortali. Posso andare ovunque, e fare tutto ciò che desidero!». Allargò le braccia in un gesto di grandiosità, poi le abbassò e alzò un dito in segno ammonitore verso di me. «Ma ora sarete più saggio e verrete da me di vostra stessa volontà. Perché lottare, quando è chiaro che non potete fare niente per fermarmi?»

«Allora uccidetemi», dissi. Non era semplicemente una sfida: il mio dolore per essere incapace di salvare Lucy mi lasciava in un’agonia di impotenza. «Uccidetemi onestamente e consegnatemi alla morte incorrotto, se veramente non ho alcun valore per voi».

Uno spasmo di furia contorse i suoi lineamenti. Attraversò l’aria con il braccio come se stesse preparando un colpo di rovescio; la mia testa e la parte superiore del busto andarono a sbattere di nuovo contro il pavimento in modo così violento che l’aria mi fuoriuscì dai polmoni, lasciandomi per un doloroso minuto incapace di respirare.