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Lungo la strada sul fianco della collina, pregai fervidamente con ogni affannoso respiro.

«Arminius, aiutaci! Arminius, aiutaci…».

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

5 novembre, continua. Con la chiave in mano, sono entrata nel castello dopo una corsa disperata, sebbene non sapessi dove avrei trovato rifugio. Così corsi follemente di luogo in luogo, cercando, senza sapere cosa cercavo. Prima nella stanza del trono di Vlad, poi nella stanza che Dunya e io avevamo diviso, e nelle camere in cui mi ero divertita con Elisabeth…

Infine andai nella cappella, pensando a Carfax e all’“incrocio”, ritenendo che forse lì avrei potuto trovare la seconda chiave e consegnare entrambi i tesori nelle mani di Van Helsing. Ma, mentre stavo lì tentennando, in mezzo a bare rotte e in rovina, i miei occhi furono feriti da una radiosità abbagliante, fortissima: un chiarore che era, nello stesso tempo, oscuro.

Mi ritrassi, ma era troppo tardi. Elisabeth stava accanto a me, più soprannaturalmente bella di quanto l’avessi mai vista, e più crudele. Le sue labbra erano fisse in una smorfia di scherno, e i suoi occhi… la freddezza, il vuoto, l’odio, che vidi in essi, non lo dimenticherò mai! Ebbi la sensazione di guardare una vipera squisitamente ingioiellata, pronta a colpire.

Mi afferrò il polso, così forte che l’osso scricchiolò, e allora gridai per il dolore; nell’udire il mio gemito, il suo sorriso si allargò.

«Di noi due», disse, «direi che il tempo ha trattato me con più gentilezza: tu hai un aspetto meno bello, mia cara».

«Faccio un uso migliore del mio potere», risposi, poi gridai ancora mentre lei mi torceva la mano facendole fare un giro completo e apriva un dito per volta; sorridendo, mi prese la chiave.

Un improvviso chiarore risplendette dal suo ventre; vi lasciò cadere la chiave, poi tirò fuori dallo stesso luogo la bianca pergamena rilucente. Mentre la spiegava, sotto il testo dorato apparve un’altra riga di lettere lucenti:

Nella prigione in mezzo alle ossa giace la donna con il cuore d’oro: la seconda chiave.

«Le ossa!», domandò, scuotendomi il braccio con forza quasi divina. «Dov’è la prigione? Parla, mia cara! Tu conosci questo posto meglio di me!».

Ero impotente in sua presenza e provavo vergogna per la mia impotenza; quando affondò i suoi denti regolari nella mia spalla e lacerò stoffa e carne, non riuscii a trattenere un grido.

«Dio, pregai in silenzio, od Oscuro, non mi importa chi! Fai come vuoi… infliggimi i peggiori tormenti per tutta l’eternità, ma solo permettimi di fermarla…

«La prigione!», gridò ancora, poi rimase in silenzio; uno sguardo ispirato alleggerì la malvagità della sua espressione. «Sì… il posto con le ossa, dove tu mi conducesti a vedere Arkady… Portamici immediatamente!».

«Ti ci porterò», dissi, «se tu risponderai a una sola domanda. Chi l’ha fatto rivivere?».

I suoi occhi si strinsero.

«Allora lo hai incontrato, suppongo… Bah! È stato uno spreco, uno spreco di energia. Tu mentivi: dicevi che voleva distruggere Vlad. Quale beneficio mi ha apportato?»

«Al prezzo di Dunya», osservai amaramente. «Hai ucciso lei per far rivivere lui…».

Lei non lo negò, ma mi scosse malamente, dicendo:

«Fai strada! Portamici adesso… e sappi che più tardi pagherai per questa insolenza. Quando diventerò potente come l’Oscuro Signore, stanotte, ti metterò in gabbia nella Vergine per tutta l’eternità! E tu, mia cara, sarai la prima ad essere testimone della mia trasformazione e della mia vendetta; hai guadagnato questo dal tuo tradimento».

Non sapevo cos’altro fare, così la condussi all’entrata principale del castello, poiché era soltanto risalendo che potevamo poi scendere fin dove intendeva andare. E, mentre passavamo di lì, lei si fermò mentre la grande porta principale si spalancava, e sorrise alla vista di Bram, affannato, con gli occhi sconvolti, sulla soglia.

«Dottor Van Helsing», disse con ironica dolcezza. «Come siete gentile a farci visita! Temo di essere, al momento, occupata con uno dei vostri parenti, ma non temete! Ritornerò da voi… sia che fuggiate con la nave, con il treno o con il carro; non importa. Vi troverò e farò fare a voi e ai vostri amici una spiacevole fine».

Fece quindi un gesto con la mano verso di lui, come una gelida signora potrebbe scacciare un servo; subito lui cadde all’indietro, in silenzio.

Bram, gli dissi in silenzio, prendi gli altri e fuggi. Dovete trovare Arminius…

Lo lasciai lì e la condussi nel profondo delle viscere del castello, nell’umida cantina scavata nella terra, ora completamente piena delle ossa dei molti che vi erano morti tra i tormenti.

«La donna», disse Elisabeth, con la voce bassa per l’ansia. «Dove sarebbe la donna con il cuore d’oro?».

Onestamente non lo sapevo.

«Questi sono, per la maggior parte, uomini», dissi, indicando verso il basso la terra ricoperta di ossa, «ma alcune sono donne. Non so immaginare dove…».

Le mie parole furono cancellate da un vento potente, che alzò la terra compressa e cominciò a farla roteare, finché la stanza fu piena di sabbia pungente e turbinante. Mi coprii il viso finché essa si posò, poi abbassai le mani e vidi che i miei piedi erano fermi sopra un’ineguale piattaforma di scheletri ammassati, tutti così vecchi che le ossa si erano staccate ed erano sparse disordinatamente. Migliaia e migliaia di scheletri, così tanti da farmi comprendere che essi e non la terra costituivano le fondamenta del castello.

Solo un piccolo punto emergeva tra quel macabro intrico di avorio ingiallito: l’angolo dov’era il catafalco di Arkady, dal quale la polvere e la bara di Dunya adesso erano stati rimossi. Il catafalco di pietra restava ma, sotto di esso — da secoli, circondato da gambe, braccia e mani d’ossa e da dita senza carne che afferravano la sua lucida superficie — vi era una bara di acciaio lucente.

Sempre tenendomi per il braccio, Elisabeth mi trascinò verso di essa… poi lentamente allentò la presa con un sorriso astuto, sapendo che non sarei potuta scappare da lei in quel momento. Stringendo con una mano il manoscritto, usò l’altra per spingere di lato il solido catafalco di pietra, facilmente, come una donna mortale potrebbe spingere una sedia.

La pietra cadde rivoltandosi su altre ossa, schiacciandole quando cadde su un lato. Entrambe ci chinammo sulla bara per leggere l’iscrizione che vi si trovava, in rumeno arcaico:

ANA, AMATA CONSORTE DI VLAD III

Con un sibilo di trionfo, Elisabeth tolse il coperchio e lo gettò di lato; esso cadde rumorosamente sulla pietra, rompendola.

All’interno si trovava uno scheletro piccolo e fragile, con la mascella disintegrata, tanto che il cranio era caduto in avanti sulle ossa del collo e giaceva perpendicolarmente alle costole. Sotto la testa c’era una lunga striscia di capelli neri in decomposizione; sotto le braccia incrociate un pezzo di seta ingiallita a brandelli.

E a sinistra dello sterno vi era un medaglione di oro martellato, leggermente più grande di quanto doveva essere stato il vero cuore della signora. Nel centro c’era una piccola serratura e, sopra la serratura, scritte in latino, c’erano le parole:

ETERNA BONTÀ

Subito Elisabeth lo agguantò e, con la mano che tremava, trasse la piccola chiave d’oro dal suo seno e la fece scivolare nella serratura.

Vi si adattò senza difficoltà, con uno scatto. Mentre lo apriva lentamente, mi guardò con un oscuro, cupo sorriso.