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Il diario di Abraham Van Helsing

5 novembre, continua. Mentre entravo barcollando e ansimando nel castello, ancora sconvolto per la sensazione della vicinanza dell’Oscuro, incontrai per caso Zsuzsanna, crudelmente intrappolata nella potente stretta della contessa di Bathory. Quella vista mi riempì di una disperazione ancora più grande. Elisabeth era in possesso della prima chiave! Ma non aveva ancora scoperto la seconda e risolto il mistero, poiché non appariva più potente di quanto fosse sembrata fuori, sulla neve. Ma come potevo fermarla?

L’espressione di Zsuzsanna era calma, senza paura; non disse una parola mentre Elisabeth si prendeva gioco di me, mi minacciava, e mi faceva cadere a terra come aveva fatto con gli altri, con un semplice gesto. Ma, prima che la contessa trascinasse via la sua prigioniera, promettendo di ritornare da me più tardi, Zsuzsanna catturò il mio sguardo.

E le sue silenziose parole mi riempirono la testa: Bram, prendi gli altri e fuggi. Trova Arminius…

Andava incontro, lo sapevamo tutti e due, al più spiacevole dei destini, ma sembrava estremamente rassegnata al suo fato, come se lo meritasse, e non mostrò altro che preoccupazione per me. E, in quell’istante, le perdonai lutto.

Arminius! Dannato Arminius! Una volta che entrambe furono scomparse, mi alzai in ginocchio e singhiozzai, scuotendo il pugno verso l’aria vuota, pregando perché il mio protettore apparisse e mi aiutasse.

Da qualche punto sotto di me, nelle viscere del castello, udii il grido soffocato di Zsuzsanna, e mi alzai pieno d’ira. Non sarei stato a guardare. Avevo visto la direzione in cui erano andate, e la seguii finché trovai una botola che chiaramente conduceva di sotto. Ma era bloccata. Non riuscii ad aprirla e non riuscii a entrare: non potei fare altro che lamentarmi in preda a un’impotente frustrazione. Tra pochi minuti, forse anche prima, Elisabeth sarebbe ancora emersa, e nessun talismano in tutto il mondo l’avrebbe fermata.

Così mi sedetti sul pavimento, tenendomi la testa tra le mani e, agnostico quale sono, pregai Dio.

Nella mia testa, una voce parlò ancora: era la voce benedetta di Arminius.

Abraham, figlio mio. Siamo vicini alla sconfitta. Soltanto una cosa può fermarla: stipula tu un Patto con l’Oscuro Signore, e compra la nostra vittoria.

«No!». Mi premetti le mani contro il cranio, per fame uscire quelle cattive parole. «No!».

Di nuovo pregai Dio, ma, nuovamente, Dio rimase in silenzio. Arminius parlò ancora. Dio non ti può aiutare adesso. Solo l’Oscuro Signore lo può.

Il pavimento rimbombò come per un terremoto e da sotto provenne l’ululato di una forte tempesta. Cercai di alzarmi in piedi, di riprendere a camminare, ma persi l’equilibrio e caddi su un ginocchio. Con l’immaginazione vidi la grande oscurità incombente del sogno e mi vidi divorato da essa…

E poi l’immobilità. Un’immobilità così profonda che fui pieno di un terrore differente, in attesa del suono della voce di Elisabeth accanto a me.

«Oscuro Signore!», gridai. «Ascoltami! Io, Abraham Van Helsing, farò un Patto con te!».

Riuscii a malapena a pronunciare quelle parole, prima che la terribile oscurità apparisse, con la grande ombra del sogno che avanzava e cominciava a turbinare: era più cupa dell’indaco, più profonda del nero; più profonda della notte, della morte o dell’eternità.

Eppure era un’entità, un essere. Mentre si avvicinava, sentii la sua intelligenza e mi alzai in piedi per salutarla da uomo. Padroneggiai la mia paura, nascosi il mio tremore, e gridai severamente:

«Farò un Patto con te. La mia vita in cambio della distruzione di Elisabeth».

Dal centro di quella oscurità turbinante provenne una voce sottile, gentile.

L’Oscuro Signore non scambia vita con vita. Parlami di anime. Parlami di eternità.

«La mia anima», gridai, «in cambio della distrazione di Elisabeth!».

Io offro soltanto immortalità: la maledizione del Vampiro. Che cosa mi offri in cambio?

«Non diventerò un Vampiro! Non prenderò viventi o morti! Perché non mi puoi prendere come sono?».

L’oscurità cominciò a svanire, a tornare indietro, a ritirarsi da me; di sotto, udii l’urlo terrorizzato di una donna. Per un terribile istante, credetti che fosse troppo tardi: che Elisabeth fosse diventata forte come l’Oscuro Signore.

«Benissimo!», bisbigliai con amarezza. «Sarò un Vampiro… ma uno molto più forte di Elisabeth, più potente di lei… in cambio della mia anima. In cambio della sofferenza di tutto il mondo, se mi renderai capace di sconfiggerla».

Immediatamente, una sensazione di calma infinita e di accettazione mi invase e, quando l’oscurità fluì sopra di me come le più profonde acque dell’oceano, non provai paura. Quando, alla fine, mi inghiottì, mormorai:

«Se devo essere tuo, mostrami il tuo volto».

Al suo centro apparve un piccolo punto di luce dorata, che cominciò a crescere…, sempre più chiaro, sempre più ampio, finché la sua radiosità scacciò tutta l’oscurità. Accecato, chiusi gli occhi. E, quando li riaprii, vidi, davanti a me, il mio amato mentore, Arminius.

«Ci incontriamo ancora, Abraham», disse, sorridendo. «Come ti ho detto molto tempo fa: esistono molti tipi di Vampiri… e io ne sono il capo».

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

5 novembre, continua. Guardai il viso di Elisabeth mentre lei esaminava il contenuto del medaglione: lo guardavo con attenzione in cerca del cambiamento che avrebbe annunciato la mia distruzione.

La sua espressione si fece intenta, poi confusa, quindi frustrata, mentre mormorava: «Ci deve essere dell’altro!». Quindi lo allontanò e lo rivoltò tra le mani per esaminarlo più da vicino, come a cercare una molla nascosta; poi tirò fuori ancora una volta il manoscritto e lo lesse con attenzione, attendendo un po’ nella speranza che sarebbe apparsa un’altra riga.

Infine, con un grido di rabbia, gettò via il medaglione, con la chiave ancora attaccata, nel mucchio di ossa vicino ai miei piedi. Mi chinai e cercai di arrivare ad esse, ma non ci riuscii; la chiave era caduta tra gli strati di ossa e il medaglione stava a faccia in giù oltre la mia portata, così che non riuscivo nemmeno a voltarlo per vederne il contenuto.

Sopra di noi, un’improvvisa oscurità velò la volta: un’oscurità che si muoveva, come il temporale più furioso e minaccioso. Si abbassò sempre di più finché si fermò come una colonna davanti a Elisabeth, coagulandosi finché fu così densa che io ebbi la sensazione di poterla toccare come avrei fatto con un essere umano.

Con un ringhio, Elisabeth si gettò sul pavimento di scheletri, scavando tanto disperatamente per raggiungere gli oggetti caduti, da ignorare il manoscritto, che cadde accanto a lei.

«Non ne hai il diritto!», gridava all’oscurità. «Questo momento è mio, questi ciondoli sono miei e, se tu me li togli…».

Esitò nella sua rabbia farfugliante, comprendendo evidentemente che non c’era alcun modo per minacciare quell’entità. Con un urlo demoniaco, si voltò per fuggire.

Ma non poté poiché, accanto a lei, c’era Bram, che riluceva di una luce interna molto più forte della sua. Lei si mosse per oltrepassarlo e si scoprì intrappolata tra l’oscurità e la luce di lui.

Io mi voltai stupefatta verso la colonna, e vidi al suo posto un bambino radiosamente bello. Nelle sue mani c’erano il manoscritto e il medaglione caduto, ed egli me li offrì entrambi.

Li presi con reverenza, posai la pergamena luccicante, e feci scorrere le mie dita sul messaggio esterno del medaglione: ETERNA DIVINITÀ. Poi, come fosse un libro, aprii il cuore — lo aprii come se fosse il mio — e sui fogli interni lessi: