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«Arminius, aiutami!», grido, e continuo a gridare finché divento rauco. Ma lui non dà segno di riconoscermi o di accorgersi di me, né lo fa Archangel; lui e il lupo rimangono degli osservatori distaccati.

Indifeso, pieno d’orrore, rimango a guardare mentre la nera figura si trasforma da predatore animale in essere umano, dapprima rimpicciolendosi fino a diventare un bambino, poi ingrandendosi fino ad assumere la forma di un Uomo.

«Chi sei?», domando, tremando; nonostante il mio sfoggio di coraggio, le mie guance sono bagnate di lacrime.

Nessuna risposta. Segue un lasso interminabile di tempo, durante il quale il contorno della creatura piano piano aumenta. So che vuole circondarmi e assorbirmi — divorarmi completamente — e ho paura.

«Chi sei?», domando ancora e, dopo una pausa, odo la risposta bisbigliata nella mia stessa mente, con la voce della mia Gerda:

«L’Oscuro Signore…».

Ne sono inghiottito e svengo per il puro terrore notturno. Quindi mi sveglio improvvisamente, con il cuore che mi palpita contro le costole come un prigioniero che chiede libertà.

Le mie ricerche dell’Occulto mi hanno provato al di là di ogni dubbio che tali sogni sono delle premonizioni. Ma, per quanto cerchi, non riesco ad accertarne il significato. È lo stesso Demonio che mi si avvicina? Non credo nemmeno, nel senso più stretto del termine, in quel concetto, sebbene sappia che c’è una moltitudine di entità in questo mondo e altrove che non sono umane, ma che possiedono un’eguale o più grande intelligenza.

Desidero il conforto e l’aiuto della presenza di Arkady, sebbene sappia che è morto e non può aiutarmi. Ma c’è qualcuno che può.

Arminius! Arminius, mio amico e maestro, tu che mi hai guidato nei momenti più difficili nel mio passato, tu che mi hai addestrato all’uccisione dei Morti Viventi. Mi abbandonasti talmente tanti anni fa, e io non so nemmeno come chiamarti. Tu che sei immortale, devi essere, di certo, ancora vivo.

Arminius, aiutami…

Il diario di Zsuzsanna Dracul

2 maggio 1893. Per una successione interminabile di anni sono stata intrappolata all’interno di questo castello a guardare la degenerazione del mio benefattore, Vlad, da immortale forte e bello all’ombra pietosamente ripugnante di un mostro egoista. Peggio ancora, so che lo stesso orrendo cambiamento si verifica anche per me; quando mi pettino i capelli, sono obbligata a riconoscere una preponderanza di argento là dove, una volta, c’era solo nero. E le mie mani! Le sto vedendo, adesso, mentre intingo la penna. Sono delle cose così povere, fragili, avvizzite: la pelle è come pallida pergamena sopra le ossa. Se queste sono orrende, che cosa è diventato il mio viso, un tempo tanto bello?

È più di quanto possa sopportare, in parte a causa della mia impotenza e di quella di Vlad. Siamo arrivati a odiarci l’un l’altro in ragione del nostro tormento… e la colpa è tutta di quel bastardo di Stefan! (Lo devo chiamare bastardo, sebbene sia l’erede legittimo del mio defunto fratello, Arkady: si merita di essere chiamato con parole ancora più oscene di questa!). O lo devo chiamare con il suo pseudonimo, Van Helsing? In qualche modo ho scoperto che il Patto funziona in due modi: ogni volta che distrugge la progenie di Vlad — quei pochi di cui non riusciamo a liberarci nel modo giusto (non ci piace creare dei concorrenti) e tutta la loro numerosa discendenza — noi diventiamo più deboli. La nostra fine sembra inevitabile poiché, per due lunghi decenni, non abbiamo avuto altra scelta se non restare qui a languire, specialmente adesso che siamo troppo deboli per andare a caccia di nutrimento.

Ieri sera Vlad è venuto da me: la sua pelle era grigia come quella di un cadavere, gli occhi infossati e rossi, i capelli e le sopracciglia completamente bianchi e crespi. Ma le labbra pallide erano curve in un sorriso e la sua voce era stranamente eccitata mentre diceva:

«Zsuzsanna, se non agiamo, saremo ben presto così deboli che Van Helsing potrà venire e distruggerci facilmente. Ma no… non piangere, perché ho buone notizie!».

Infatti, ero scoppiata in singhiozzi, tanto grande era la mia sofferenza al pensiero che io, che ero stata piena di tutto quel potere, di quella felicità, di quella speranza, non potessi far altro che attendere impotente il finale ed eterno oblio…

Ma lui mi fece un cenno con la mano e disse con veemenza:

«Non piangere a causa sua. Lui pensa di essere abbastanza potente per sconfiggerci, ma presto capirà il suo errore. Non mi sfuggirà: ben presto farò in modo che venga consegnato nelle mie mani. Ma ecco la notizia: un visitatore mortale arriverà presto al palazzo, un giovane sano… Non sospirare, poiché non è tutto. Ho anche ricevuto una lettera da mia cugina Elisabeth».

«Elisabeth?». Quel nome non l’avevo mai udito pronunciare e, in ogni caso, non capivo perché avrebbe dovuto essere una cosa favolosa, dato che la sua voce si era alzata esultante, come se avesse annunciato la nostra liberazione.

«È un’immortale come noi. È potente e abile, abbastanza astuta per sconfiggere il figlio di tuo fratello. E lo farà ma, prima, verrà qui da Vienna e ci rimetterà in forze».

«Com’è possibile?», chiesi e, immediatamente, compresi che la mia domanda era sciocca.

Era ovvio che questa Elisabeth sarebbe stata in grado di portarci una quantità ancora più grande di fresco sangue vitale di quanto un solo uomo potesse fornire. Ciò avrebbe almeno alleviato la debolezza che aveva origine dalla fame, ma certamente non avremmo potuto riacquistare il nostro pieno vigore finché l’azione violenta di Van Helsing non fosse terminata.

Nell’istante in cui posi la mia domanda, Vlad si tirò indietro e i suoi occhi si spalancarono, diventando rossi per una rabbia che non compresi.

«Questi non sono affari tuoi!», disse bruscamente e, un attimo dopo, uscì dalla mia stanza.

È chiaro che questa Elisabeth dev’essere una donna molto potente… più potente dello stesso Vlad, altrimenti non avrei colto la chiara nota di gelosia nella sua voce. Sì, mi ha regalato questa esistenza e, per questo, dovrò sempre essergli grata ma, allo stesso tempo, sono arrivata a disprezzarlo, disprezzarlo per la sua crudeltà, la sua arroganza, le sue menzogne. Per lui, non sono altro che una cosa in suo possesso, nel migliore dei casi una compagna occasionale che tratta come desidera e manda via senza preoccuparsi dei miei sentimenti quando si stanca di me. Cinquant’anni fa mi diede il Bacio Oscuro perché, in vita, ero timida, grata, umile, innamorata di lui, ma ora che mi sono trasformata nella forte e sicura creatura che dovevo diventare, si annoia, e prova persino fastidio.

L’ultima volta che uscì dal castello per cacciare, molti mesi fa (poiché tutti noi siamo troppo deboli per coprire la lunga strada che porta al Passo di Bistritsa, onde impostare lettere e così invitare ospiti al castello, come facevamo nei giorni andati… o così avevo sperato), diedi voce a una protesta: perché mi veniva richiesto di restare come una prigioniera al castello, in attesa di qualunque piccolo dono lui decidesse di portarmi, dopo che si fosse nutrito a suo piacimento? Era sua abitudine portarmi soltanto un neonato o un bambino pallido e anemico… per farmi restare più debole di lui. Lo comprendo solo ora: questo era per far sì che fosse sempre lui ad avere il controllo su tutto e su tutti.

Se avessi posseduto un po’ più di forza fisica, lo avrei sfidato ma, la prima volta che si offrì di cacciare per tutti noi, pensai, in tutta onestà, che fosse per gentilezza, e così accettai con gratitudine. E quando ritornò con soltanto un minuscolo neonato per me, da dividere con Dunya, era pieno di scuse e pretesti. Fu così che, la seconda volta che uscì, credetti scioccamente che ci avrebbe portato qualcosa di grosso: un giovanotto vigoroso o una forte contadina.