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Consuelo venne ad aprire con Mario aggrappato a lei come una scimmietta. Dopo la nuotata in piscina si era chiuso in un mutismo ostinato. Si lanciò verso Carmen con una sveltezza che rivelava il suo bisogno di contatti umani. Carmen li stupì con la sua memoria prodigiosa di ogni specie di dettaglio del viaggio, ascoltata da Consuelo, la quale capiva lo scopo di quelle chiacchiere inarrestabili: Carmen Ortiz non voleva un solo momento di silenzio in cui la sciagura del giorno potesse incunearsi e fare leva, per scoprire il futuro di disperazione e di solitudine di Mario.

Tornarono all’auto e tutta la famigliola si strinse sul sedile posteriore, con i bambini che accarezzavano Mario come se fosse un gattino ferito. Consuelo si sporse dentro la macchina e lo baciò con forza sulla testa. A Falcón parve quasi di udire lo strappo fisico quando Consuelo si ritirò. Conosceva bene il peso terribile che doveva sentire allo stomaco il bambino, all’inizio della sua caduta libera in un caos senza la madre, senza la quotidianità del suo amore. Si sentiva pieno di compassione per lui. Continuò a guidare, trasportando il suo carico di dolore nella frenesia della città.

Li accompagnò a casa dei Cabello, portando il loro bagaglio. Si presentarono all’appartamento come nomadi. Il signor Cabello, sulla poltrona a dondolo, guardava fisso davanti a sé. Alla vista dei nipotini gli tremarono le labbra. Mario scalciava e si dibatteva cercando di restare aggrappato alla zia. Pérez se n’era andato. Falcón e Cristina Ferrera si ritirarono e nella famiglia distrutta si diffuse un senso di catastrofe imminente.

In ascensore Cristina Ferrera sospirò, la testa piegata su un lato, come se la pena della situazione che aveva dovuto affrontare le si fosse insinuata nel collo, torcendoglielo definitivamente.

Si diressero in silenzio verso il centro della città, dove Falcón l’avrebbe lasciata. La poliziotta richiuse la portiera e tornò a piedi fino all’incrocio, mentre Falcón girava intorno alla Plaza Nueva, svoltando poi in Calle Méndez Nuñez e rallentando davanti al Corte Inglés. Poi, mentre si allontanava da Plaza Magdalena e si apprestava a imboccare Calle Bailén, squillò il telefono cellulare.

«Non voglio sembrarle un’idiota fin dalla prima settimana», disse Cristina Ferrera, «ma credo che la stiano seguendo. Era una Seat Cordoba blu, due macchine dietro la sua. Ho preso la targa.»

«La dia alla Jefatura e mi faccia richiamare», le disse Falcón. «Io controllo.»

Nella luce del tramonto si distinguevano ancora i colori e riuscì a vedere la Seat, ora a una sola macchina di distanza dalla sua mentre superava l’Hotel Colón. Falcón superò il negozio di piastrelle subito prima della sua casa e svoltò nel vialetto di accesso, fermandosi sotto gli aranci. Scese dall’auto. La Seat blu si arrestò davanti a lui, sembrava piena di gente. Si avvicinò, ma la Seat ripartì senza fretta, dandogli perfino il tempo di leggere la targa prima di svoltare all’altezza dell’Hotel Londres.

La Jefatura lo chiamò sul cellulare e riferì che il numero di targa dato da Cristina Ferrera non apparteneva a una Seat Cordoba blu. Falcón disse di comunicare il numero di targa alla polizia stradale, sperando che avessero fortuna.

Aprì il portone, entrò con l’auto, e richiuse i battenti. Si sentiva a disagio, aveva la pelle d’oca. Rimase fermo nel patio e si guardò intorno, tendendo le orecchie come se temesse che un ladro fosse entrato in casa, ma gli giunse solo il rumore attutito del traffico. Andò in cucina. Encarnación, la sua governante, gli aveva lasciato in frigorifero uno stufato di pesce. Fece bollire del riso, scaldò lo stufato e bevve un bicchiere di vino bianco. Mangiò seduto verso la porta, con uno strano senso di attesa.

Dopo mangiato fece una cosa che non faceva più da parecchio tempo. Con una bottiglia di whisky e un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio si ritirò nello studio, dove aveva sistemato una chaise longue di velluto grigio, prelevata da una stanza al piano superiore. Vi si accomodò, con una generosa dose di whisky nel bicchiere che tenne posato sul petto. Era esausto dopo gli eventi della giornata, ma il sonno tardava a venire, per molte ragioni. Bevve con più metodo di quanto ne usasse nelle sue indagini, sapendo ciò che faceva: occorreva determinazione per riparare ai danni. Alla fine del terzo bicchiere aveva elaborato il tema della nuova infanzia di Mario Vega e della difficile vita di Sebastián Ortega con il padre famoso. Adesso toccava a Inés. Ma ebbe fortuna: il suo organismo non era abituato a quelle dosi di alcol e Falcón si addormentò tranquillamente, la guancia appoggiata al morbido tessuto grigio della poltrona.

7

Giovedì 25 luglio 2002

Il caldo non si attenuò durante la notte, e quando Falcón arrivò alla Jefatura alle sette e mezzo del mattino la temperatura all’esterno era di 36° centigradi e l’atmosfera opprimente come quella di un regime. I due passi dal parcheggio all’ufficio, con i postumi della sbronza come un’accetta piantata nel cranio, lo lasciarono boccheggiante, con strani lampi di luce dietro le palpebre.

Si sorprese di trovare Ramírez già al lavoro, con due tozze dita sulla tastiera del computer. Falcón aveva dubitato della possibilità di un rapporto amichevole con lui da quando gli aveva soffiato il posto che Ramírez riteneva suo di diritto. Ma negli ultimi quattro mesi, dopo che Falcón aveva ripreso a lavorare a pieno ritmo, le cose erano andate migliorando con il suo più stretto collaboratore. Quando Falcón si era assentato a causa di una depressione, Ramírez aveva avuto modo di capire che avere troppe responsabilità non gli piaceva poi tanto. Le pressioni del comando non gli si confacevano e non solo gli mancava la necessaria vena creativa per impostare un’indagine, ma il suo temperamento collerico e il suo atteggiamento creavano divisioni nella squadra. In gennaio Falcón era tornato al lavoro a mezza giornata e in marzo era già stato reintegrato nel grado di Inspector Jefe a tempo pieno; e Ramírez aveva tirato un sospiro di sollievo. La nuova situazione aveva ridotto le tensioni nel Grupo de Homicidios e ormai Falcón e Ramírez raramente usavano i rispettivi gradi per parlarsi in privato.

«Mio Dio!» esclamò Ramírez, «che le è successo?»

«Buenos días, José Luis. Ieri è stata una brutta giornata per quanto riguarda l’argomento figli», rispose Falcón, «e ho rifatto amicizia col whisky. Come è andata all’ospedale?»

Ramírez alzò gli occhi dalla scrivania e Javier provò una sensazione di vertigine, come se fosse affacciato sull’orlo di due pozzi vuoti e bui che conducevano direttamente alla sofferenza e a un’intollerabile incertezza.

«Non ho dormito», rispose Ramírez, «sono stato alla prima messa, cosa che non facevo da trent’anni, e mi sono confessato. Ho pregato come non ho mai fatto in vita mia… ma non funziona così, vero? È questa la mia penitenza: assistere al dolore degli innocenti.»

Trattenne il fiato e si coprì il volto con le mani.

«La tratterranno quattro giorni per una serie di esami. E alcuni sono per malattie gravissime come il tumore al sistema linfatico e la leucemia. Non hanno idea di che cosa si tratti. Ha solo tredici anni, Javier, tredici anni.»

Ramírez accese una sigaretta e aspirò il fumo, tenendosi un braccio sul petto come se si stesse reggendo per impedirsi di cadere. Parlava degli accertamenti come se avesse già deciso che la bambina aveva qualcosa di grave e le espressioni terribili delle cure a venire si insinuavano già nel suo vocabolario: chemioterapia, nausea, alopecia, caduta delle difese immunitarie, rischio di infezioni. Immagini di bambini dagli occhi enormi sotto la cupola perfetta dei loro fragili crani si proiettarono tra i pensieri già cupi di Falcón.