Выбрать главу

«Il signor Vega aveva una vecchia automobile da usare per girare nei cantieri?»

«Non che io sappia.»

Falcón riattaccò.

«Consuelo Jiménez», disse Ramírez con un gran sorriso.

«Non cominciamo, José Luis», lo zittì Falcón chiamando la Vega Construcciones.

«Perché Cristina sta lavorando su Pablo Ortega quando sappiamo benissimo che cosa gli è successo?» domandò Ramírez.

«Diciamo per un’intuizione», rispose Falcón. «Quello che voglio sapere ora è chi, nella Jefatura, abbia potuto parlare di me ai russi.»

Al telefono chiese del capocantiere, il quale confermò che nel parcheggio si trovavano soltanto auto appartenenti ai dipendenti e che il signor Vega aveva sempre avuto una macchina sola: prima una Mercedes e poi una Jaguar. Falcón riagganciò e riferì a Ramírez le minacce che aveva ricevuto e il commento di Elvira.

«Perché deve essere qualcuno della Jefatura? Lei è stato seguito fin dal primo giorno. Chiunque avrebbe potuto attingere informazioni dalle telefonate sul suo cellulare. A Siviglia non c’è uno che non conosca la sua storia.»

Falcón e Ramírez cominciarono a chiamare i garage di Siviglia per chiedere se Rafael Vega o Emilio Cruz avessero un conto presso di loro. Mezz’ora dopo il garage sotto l’Hotel Plaza de Armas, in Calle Marqués de Paradas, confermò che Rafael Vega aveva un conto annuale che saldava in contanti.

Falcón si diresse a quella volta con Ramírez, il quale sintonizzò la radio su una stazione che non trasmettesse notizie e le interviste con la gente del posto sull’incendio nei boschi ad Almonaster la Real. La voce lamentosa di Alejandro Sanz riempì l’abitacolo.

«Notizie di sua figlia, José Luis?» domandò Falcón.

«Ci vorrà più di quel che si pensava», rispose l’altro, cambiando subito argomento. «Quel garage è perfetto per uscire rapidamente dalla città.»

«E nessuno ti vede, a meno di non essere fermo a un semaforo nel Torneo.»

«Allora, come ha scoperto della macchina?»

«Consuelo lo ha visto al volante», rispose Falcón. «Conosce un avvocato di nome Ranz Costa?»

«Non è uno dei soliti penalisti.»

«Veda se può fissare un appuntamento con lui in tarda mattinata», gli disse Falcón. «È l’avvocato di Pablo Ortega.»

Ramírez inserì i numeri nel cellulare. Parcheggiarono in Calle Marqués de Paradas, presero i guanti di lattice e un fascio di sacchetti di plastica e scesero la rampa del garage sotterraneo. Il custode li accompagnò alla macchina, una vecchia Peugeot 505 blu diesel, la targa posteriore quasi illeggibile a causa della polvere.

«La usa su strade sterrate», disse Ramírez, infilandosi i guanti, «Felipe può analizzare questa polvere, no?»

«Avete un’altra chiave di questa macchina?» domandò Falcón al custode, che scosse la testa, masticando uno stuzzicadenti.

«Vuole aprirla?» domandò l’uomo.

«No,» gli disse Ramírez, «vuole aprirti la zucca per vedere che cos’è quel ronzio che hai lì dentro.»

«Non morde», assicurò Falcón, «a meno che non facciate movimenti improvvisi.»

L’uomo distolse lo sguardo niente affatto impressionato dalla faccia di Ramírez e fischiò. Comparvero due ragazzi in pantaloni corti e scarpe da ginnastica e niente altro indosso. L’uomo disse loro di aprire la portiera e uno dei due tirò fuori di tasca un cacciavite e l’altro un fil di ferro arrotolato. Il ragazzino con il cacciavite lo infilò con decisione nella fessura della portiera e fece leva, l’altro usò il fil di ferro per far scattare la serratura. Il tutto in due secondi.

«Mi piacciono le cose fatte bene, commentò Ramírez, flettendo le dita nei guanti. «Mica certe stronzate come i passepartout.»

«Il signor Vega si faceva mai lavare la macchina?»

Il custode, un esperto nei piccoli talenti della vita, per tutta risposta si passò rapidamente lo stuzzicadenti da un angolo all’altro della bocca.

L’abitacolo, compresi il sedile del passeggero e quelli posteriori, era ricoperto di un sottile strato di polvere, a indicare che Vega usava l’auto da solo. Nel comparto sul cruscotto si trovavano documenti, due chiavi di porte attaccate a un anello senza etichetta nel posacenere e la scheda di un hostal residencia nel paese di Fuenteheridos, nel distretto di Aracnea.

Richiusero la portiera, raccomandarono all’addetto di non toccare l’auto perché avrebbero mandato un carro attrezzi a ritirarla. Ramírez raccolse un po’ di polvere in un sacchetto di plastica. Mentre stavano tornando alla macchina di Falcón, Cristina Ferrera chiamò per dire che Pablo Ortega aveva fatto quattro telefonate il venerdì sera, prima di suicidarsi. Le prime due, durate trenta secondi l’una, erano state dirette a un costruttore e a un certo Marciano Ruiz. La terza, di dodici minuti, era stata fatta a Ignacio Ortega. L’ultima, a Ranz Costa, era durata due minuti.

Dal costruttore Ramírez seppe che Ortega gli aveva telefonato per disdire un appuntamento. Falcón conosceva personalmente Marciano Ruiz, un regista teatrale, perciò gli telefonò mentre si dirigevano allo studio di Ranz Costa. Ortega aveva lasciato un messaggio osceno sulla segreteria di Ruiz.

«Allora qual è il collegamento tra il suicidio di Ortega e la morte di Vega?» domandò Ramírez.

«Sulla carta nulla, se non che si conoscevano ed erano vicini di casa.»

«Ma il suo fiuto le dice che c’è dell’altro?»

Furono introdotti nello studio di Ranz Costa, una specie di orso che sudava abbondantemente nonostante l’aria condizionata.

«Venerdì sera lei ha ricevuto una telefonata da Pablo Ortega», esordì Falcón. «Di che si trattava?»

«Mi ha ringraziato per aver riscritto il testamento e per la copia che gli avevo mandato per corriere nel pomeriggio.»

«Quando le aveva dato istruzioni di redigere un nuovo testamento?»

«Giovedì mattina», rispose Ranz Costa. «Ora capisco l’urgenza della richiesta.»

«Ha parlato con il fratello, con Ignacio Ortega, stamani?»

«Mi ha telefonato ieri sera. Voleva sapere se Pablo mi avesse scritto una lettera. Gli ho detto che ogni comunicazione tra noi era avvenuta per telefono o di persona.»

«Le ha chiesto quale fosse il contenuto del testamento?»

«Avevo cominciato col dirgli che suo fratello lo aveva cambiato, ma pareva che lo sapesse già. Non era quello a preoccuparlo.»

«Il cambiamento era in qualche modo a suo beneficio?»

«No», rispose Ranz Costa, spostando il peso sull’altra natica, leggermente a disagio ora che la riservatezza sul cliente cominciava a incrinarsi.

«Conosce già la prossima domanda», gli disse Ramírez.

«La casa di Santa Clara ha sostituito il precedente immobile di proprietà e Ignacio non era più uno dei beneficiari.»

«Chi sono gli eredi?»

«In primo luogo Sebastián, che ora avrà tutto, tranne due somme in contanti da versare ai due figli di Ignacio.»

«Che cosa può dirmi del figlio di Ignacio, Salvador?» domandò Falcón. «A parte il fatto che è eroinomane e vive a Siviglia.»

«Ha trentaquattro anni. L’ultimo indirizzo che ho di lui è nel Polígono San Pablo. L’ho difeso due volte per un’accusa di spaccio. È scampato alla prima condanna e gli ho fatto avere una sentenza ridotta per la seconda, quando è stato condannato a quattro anni. È uscito di prigione due anni fa e da allora non l’ho più sentito.»

«Ignacio e Salvador si parlano?»

«No, ma Pablo e Salvador sì.»

«Un’ultima domanda sul testamento e poi la lasciamo in pace», assicurò Falcón. «Ignacio è ricco, dubito che si aspettasse del denaro dal fratello.»

«Aveva sempre voluto la sedia Luigi XV della collezione di Pablo.»