«Che cosa l’ha fatta dubitare dell’apparente suicidio di Vega?» gli domandò Guzmán.
«Il metodo usato, la pulizia sulla scena del crimine e il fatto che il biglietto trovato non fosse ciò che io definirei la lettera di un suicida. Prima di tutto era in inglese. In secondo luogo, era una frase lasciata a metà e in seguito abbiamo scoperto che Vega aveva tracciato i caratteri su altri da lui stesso vergati in precedenza, come se avesse voluto capire bene che cosa avesse scritto.»
«Quali erano le parole?»
«Nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine.»
«Quando mi ha parlato della sua vita segreta, ha accennato a un collegamento che le avrebbe fatto pensare a una sua origine sudamericana o centroamericana. Be’, la maggior parte della gente lo ha dimenticato dopo i fatti dell’anno scorso a New York, ma ci sono stati due 11 settembre. Secondo lei dove sono nato, Inspector Jefe?»
«Parla con accento di Madrid.»
«Ho vissuto a Madrid quasi tutta la vita, e pochi sanno che in realtà sono cileno. Il primo 11 settembre, quello che nessuno ormai ricorda più, è stato nel 1973. Fu il giorno del bombardamento del Palazzo della Moneda, dell’uccisione di Allende, il giorno in cui Pinochet salì al potere.»
Falcón strinse con forza i braccioli della poltrona girevole, fissò Guzmán negli occhi e sentì tutto quanto dentro di sé riassestarsi e uscire da un caos planetario, capì che il giornalista aveva ragione.
«Avevo quindici anni», proseguì Guzmán, il cui volto per un momento parve quello di un uomo sul punto di annegare e che vedesse la sua vita passata scorrergli davanti, «e quello fu anche l’ultimo giorno in cui vidi i miei genitori. In seguito venni a sapere che erano stati portati nello stadio di calcio, se ha in mente che cosa significhi.»
Falcón annuì. Aveva letto degli orrori perpetrati nello stadio di Santiago.
«Una settimana dopo avevo lasciato Santiago per andare a vivere con mia zia a Madrid. Scoprii soltanto in seguito che cosa era successo nello stadio. Perciò, quando sento parlare dell’11 settembre non penso alle Torri gemelle, ma al giorno in cui terroristi sponsorizzati dagli Stati Uniti e fiancheggiati dalla CIA uccisero la democrazia nel mio Paese.»
«Aspetti un momento», lo interruppe Falcón.
Si affacciò sull’altro ufficio, dove Ramírez era chino sulla tastiera.
«Elvira si è fatto vivo con il contatto all’FBI?»
«Sto appunto mandando la foto di Vega per e-mail», disse Ramírez.
«Può aggiungere che ora abbiamo motivo di credere che fosse un cittadino cileno.»
Falcón tornò alla sua scrivania e si scusò con Guzmán, il quale lo aspettava in piedi davanti alla finestra, le mani allacciate dietro la schiena.
«Sto diventando vecchio, Inspector Jefe», disse. «Da quando sono arrivato a Siviglia, ho l’impressione che il mio cervello sia cambiato. Mi sembra di non ricordare niente della mia vita quotidiana, vedo film dei quali non so raccontare nulla, leggo libri di autori che dimentico subito. Eppure quei giorni a Santiago, prima che lasciassi il Cile, sono incisi nella mia mente e me li rivedo davanti, come un film proiettato nel buio. Non so perché sia così. Forse è perché sono alla fine della carriera. Sa, è stata proprio quella la ragione per cui sono diventato il genere di giornalista che ero.»
«E che è ancora», lo rassicurò Falcón. «Anche se mi ha sorpreso vederla qui, non pensavo che si occupasse di cronaca. La credevo il caporedattore.»
«Quando ci è arrivata la notizia di Montes avrei potuto mandare chiunque, ma poi ho saputo che sarebbe stato lei a occuparsi delle indagini e non so bene perché ho deciso che era ora di conoscere Javier Falcón.»
«Be’, mi ha offerto uno spunto interessante, perciò sono contento.»
«Strane parole, quelle del biglietto di Vega, sembrano quasi poetiche. Si sente un’emozione. È come uno spirito che stia minacciando qualcuno», osservò Guzmán. «Perché pensa che io abbia ragione a proposito del Cile?»
«A parte il collegamento sudamericano, abbiamo anche saputo di discussioni tra Vega e il suo vicino americano, Marty Krugman, oltre a qualcosa che ha detto a Pablo Ortega. Nell’insieme hanno costruito il ritratto di un uomo con idee decisamente di destra, anticomunista, capitalista e fortemente filoamericano in termini di spirito di iniziativa e dello stile di vita, ma che aveva anche una visione negativa del modo in cui il governo statunitense interferiva con altre nazioni, riteneva che gli americani ti fossero amici solo finché gli eri utile… quel genere di opinioni. Ho anche trovato nel suo studio documenti sui tribunali internazionali e sull’opera di Baltasar Garzón. Considerando tutto questo alla luce del suo carattere estremamente riservato, del fatto che a giudicare dall’aspetto avrebbe potuto essere di origine latinoamericana, che pareva avesse ricevuto un addestramento particolare e conoscesse bene la società americana, ecco che Vega comincia ad apparire un uomo motivato politicamente, un uomo deluso, morto stringendo nel pugno un biglietto con una data per lui importante.»
«E perché il biglietto?»
«Personalmente credo che sia stato assassinato e volesse essere certo che le indagini sulla sua morte fossero indagini per omicidio, così come voleva che ogni suo segreto fosse scoperto e fatto conoscere a tutti.»
«Allora dove va a finire la sua teoria su Carvajal, sui russi e su Montes?»
«Che intende dire?»
«Secondo la sua ipotesi, Montes avrebbe reagito alle sue involontarie pressioni. Sarebbe bastato fargli i nomi di Carvajal e dei russi, Ivanov e Zelenov, per spingerlo giù dal precipizio. Oppure è stato il sentire quei nomi nel contesto dell’indagine su Vega a convincerlo che lei avesse scoperto qualcosa su di lui?»
«Aspettiamo di avere un riscontro dall’FBI. Se Vega avesse veramente una storia criminale alle spalle, allora questo potrebbe essere indicativo di qualcosa.»
«Nel caso fosse cileno, io direi che era un uomo di Pinochet deluso dal regime», disse Guzmán. «E ce n’erano molti così nei ranghi di Patria y Libertad, l’organizzazione di estrema destra che aveva cercato di destabilizzare Allende dal momento della sua vittoria alle elezioni. Moltissimi membri dell’organizzazione fecero cose turpi prima, durante e dopo il colpo di Stato: rapimenti e omicidi all’estero nel quadro dell’Operazione Condor, uccisioni e torture in patria, l’autobomba a Washington. E questa gente pensava che avrebbe meritato un maggiore riconoscimento: avevano fermato il comunismo sulla porta di servizio degli Stati Uniti e sentivano di dover essere ricompensati per questo. Lei però dice che Vega teneva in casa quei documenti sui tribunali internazionali e su Garzón. Parrebbe che fosse orientato verso il confessionale.»
«Credo che stesse cercando qualcosa di un po’ più vasto del confessionale», disse Falcón, «qualcosa di più simile al banco dei testimoni in un tribunale importante. Alla fine dell’anno scorso deve essergli accaduto qualcosa, qualcosa di personale che potrebbe averlo cambiato. Soffriva di attacchi di panico…»
«Be’, forse questo ha compromesso la sua capacità di giudizio. Chi è stato coinvolto in qualche grosso evento, pensa sempre di essere più importante di quello che è effettivamente. Il colonnello Manuel Contreras, l’ex capo della DINA, la polizia segreta, è finito in carcere, allegramente tradito da Pinochet: è successo forse qualcosa? L’amministrazione Clinton ha reso pubblica la documentazione: è successo forse qualcosa? La CIA stessa nel 2000 ha messo a disposizione altro materiale: è successo forse qualcosa? È stata fatta giustizia? I perpetratori dei crimini sono stati puniti? No. Non è successo nulla. Così va il mondo.»
«Ma che cosa sarebbe potuto accadere? Chi è rimasto? Chi è responsabile?»