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— Ehi, senti, io…

— Può darsi che presto presto tu debba ricevere un mucchio di danaro. Se il mio calcolo è esatto, farò arrivare un elicottero carico dei migliori poliziotti della città per portarti via nel momento in cui riceverai quel danaro. Questa è un’informazione… — Lei indietreggiò. Qualcuno passò in mezzo a noi.

— Ehi, Maud!

— Puoi fartene ciò che vuoi, di quel che ti ho detto.

Il bar era tanto affollato che muoversi in fretta voleva dire farsi dei nemici. Non so… io persi di vista Maud e mi feci dei nemici. C’erano diversi tipi strani, lì: con i capelli bisunti e divisi in ciocche appuntite, e tre di loro avevano dei draghi tatuati sulle spalle magre, un altro ancora aveva una pezza su un occhio, e un altro mi puntava contro la guancia le unghie nere di pece (ci furono due minuti di rissa generale, caso mai vi fosse sfuggita la transizione. A me sfuggì) e alcune donne strillavano. Io picchiai e schivai, e poi il tenore della chiassata cambiò. Qualcuno cantò: — Diaspro! — nel modo in cui va cantato. E significava che la pula (il comune, confusionario Servizio Regolare che io avevo eluso per quei sette anni) era in arrivo. La rissa si riversò sulla strada. Io passai in mezzo a due bravacci che facevano quel che dovevano fare, ma ce la feci a uscire dalla calca senza ferite più gravi di quelle che si rimediano quando ci si fa la barba. La zuffa si era divisa in settori. Io ne lasciai uno e incappai in un altro che, come scoprii dopo un attimo, era semplicemente un capannello di gente raccolta intorno a un tizio conciato piuttosto male.

Qualcuno teneva indietro la gente.

Qualcun altro stava rigirando il ferito.

Raggomitolato in una pozza di sangue c’era l’ometto che non vedevo da due anni e che era così bravo ad aiutarmi a sbarazzarmi delle cose non mie.

Cercando di non colpire nessuno con la mia valigetta, mi infilai tra la calca. Quando vidi spuntare il primo poliziotto regolare, mi sforzai di darmi l’aria di qualcuno che si era avvicinato per scoprire cos’era quel tafferuglio.

Funzionò.

Svoltai per la Nona Strada, e feci tre passi ad andatura svelta e tuttavia non tale da attirare l’attenzione…

— Ehi, aspetta! Aspetta, tu…

Riconobbi la voce (anche dopo due anni, la riconobbi sul momento) ma continuai a camminare.

— Aspettami! Sono io, Hawk!

Mi fermai.

Non avete sentito il suo nome, prima d’ora, in questa storia; Maud aveva nominato Hawk, il Falco, che è il capo multimilionario di un racket, ed esercita la sua attività in una zona di Marte dove non sono mai stato (sebbene affondasse gli artigli, fino agli speroni, nelle attività illegali di tutto il sistema). Quello era tutto un’altra cosa.

Tornai indietro di tre passi, verso l’androne.

Una risata fanciullesca: — Oh, cribbio. Hai l’aria di avere appena fatto qualcosa che non dovevi.

— Hawk? — chiesi all’ombra.

Aveva ancora l’età in cui due anni di assenza significano due o tre centimetri di statura in più.

— Gironzoli ancora da queste parti? — chiesi io.

— Qualche volta.

Era un ragazzo sorprendente.

— Senti, Hawk, devo tirarmi fuori di qui. — Lanciai un’occhiata nella direzione della rissa.

— Capito. — Scese. — Posso venire anch’io?

Strano. — Già. — Mi fece una strana impressione, sentire lui che me lo chiedeva. — Vieni.

Alla luce del lampione, mezzo isolato più avanti, vidi che i suoi capelli erano ancora sbiaditi come il legno del pino. Sembrava un teppistello: un giubbino nero molto sporco, senza camicia; un paio di jeans neri molto consumati… voglio dire, questo si vedeva anche al buio. Era scalzo; e l’unico modo per capire, in una strada buia, che qualcuno va in giro scalzo da giorni e giorni per New York, consiste nel saperlo già. Quando arrivammo all’angolo, lui mi rivolse un ghigno dal basso in alto, sotto il lampione, e si richiuse il giubbotto sulle cicatrici che gli deturpavano il petto e il ventre. Aveva gli occhi molto verdi. Lo riconoscete? Se in seguito a una dispersione d’informazioni tra mondi e mondicelli non l’avete riconosciuto, sappiate che accanto a me, in riva all’Hudson, camminava Hawk il Cantore.

— Ehi, da quanto sei tornato?

— Da poche ore — gli dissi.

— Cos’hai portato?

— Ci tieni proprio a saperlo?

Si cacciò le mani in tasca e inclinò la testa. — Sicuro.

Io borbottai, come un adulto esasperato dal comportamento di un bambino: — Sta bene. — Ormai avevamo percorso un isolato lungo il molo; non c’era nessuno, in giro. — Siediti. — Lui si mise a cavalcioni sul parapetto, con un piede penzoloni sul nero, lampeggiante Hudson. Io sedetti di fronte a lui e feci scorrere il pollice lungo il bordo della valigetta.

Hawk aggobbì le spalle e si sporse verso di me. — Ehi… — Mi lanciò una verde occhiata interrogativa. — Posso toccare?

Scrollai le spalle. — Fai pure.

Frugò con le dita che erano tutte nocche e unghie rosicchiate. Ne sollevò due, li rimise giù; ne prese altri tre. — Ehi! — sussurrò. — Quanto valgono?

— Circa dieci volte di più di quello che spero di ricavarne. Debbo sbarazzarmene in fretta.

Lui si guardò il piede penzolante. — Potresti sempre buttarli nel fiume.

— Non fare l’idiota. Cercavo un tale che frequentava quel bar. Lui era molto efficiente. — In mezzo all’Hudson, un battello scivolava sulla spuma. Sul ponte c’era parcheggiata una dozzina di elicotteri: li traghettavano al Campo del Servizio di Pattugliamento presso il ponte di Verrazzano, senza dubbio. Ma per qualche istante, il mio sguardo passò dal ragazzo al trasporto: mi sentivo diventare paranoide per via di quel che aveva detto Maud. Ma la nave passò oltre, muggendo nell’oscurità. — Il mio uomo è stato tagliuzzato un po’, questa sera.

Hawk si infilò i polpastrelli nelle tasche e cambiò posizione.

— E così sono rimasto fregato. Non pensavo che li avrebbe presi tutti lui, ma almeno avrebbe potuto indirizzarmi ad altri che li avrebbero comprati.

— Io vado a una festa, questa sera, più tardi. — Hawk s’interruppe per rosicchiare il relitto dell’unghia del mignolo. — Là, forse, potresti venderli. Alexis Spinnel dà una festa in onore di Regina Abolafia al Tower Top.

— Al Tower Top…? — Era un pezzo che non andavo in giro con Hawk. Hell’s Kitchen alle dieci: Tower Top a mezzanotte…

— Io ci vado perche ci sarà Edna Silem.

Edna Silem è la più anziana dei Cantori di New York.

Il nome della senatrice Abolafia era lampeggiato luminoso sopra la mia testa, quella sera. E dalla lettura delle innumerevoli riviste che avevo letto durante il viaggio di ritorno da Marte, ricordavo il nome di Alexis Spinnel, che divideva un capoverso con una spaventosa montagna di quattrini.

— Mi farebbe piacere rivedere Edna — dissi, disinvolto. — Ma lei non si ricorderà di me. — I tipi come Spinnel e compagni amano fare un giochino tra di loro. L’avevo scoperto subito dopo aver fatto conoscenza con Hawk. Quelto che riesce a radunare sotto lo stesso tetto il maggior numero di Cantori della Città, vince. Ci sono cinque Cantori a New York (seconda a pari merito con Lux su Giapeto). Tokyo è in testa con sette. — È una festa con due Cantori?

— Più probabilmente quattro… se ci vado anch’io.

Ce ne sono quattro al gran ballo per l’insediamento del sindaco.

Inarcai doverosamente un sopracciglio.

— Debbo ricevere la Parola da Edna. Stanotte cambia.

— Bene — dissi io. — Non so che cosa hai in mente tu, ma ci sto. — Chiusi la valigetta.

Tornammo indietro verso Times Square. Quando arrivammo all’Ottava Strada e al primo plastiplex, Hawk si fermò. — Aspetta un momento — disse. Poi si abbottonò il giubbotto fino al collo. — Okay.