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Passeggiare per le strade di New York in compagnia di un Cantore (due anni prima avevo passato molto tempo a chiedermi se era consigliabile per un uomo della mia professione) è probabilmente il miglior camuffamento possibile per un uomo della mia professione. Pensate all’ultima volta che avete intravisto il vostro divo preferito della Tri-D mentre svoltava l’angolo della Cinquantasettesima. Adesso siate sinceri. Riconoscereste davvero l’ometto dalla giacca di tweed, che camminava mezzo passo più indietro?

Metà di quelli che incontrammo in Times Square lo riconobbero. Così giovane, con l’abbigliamento funereo, i piedi neri e i capelli chiarissimi, era senza dubbio il più colorito dei Cantori. Sorrisi; occhi socchiusi; pochissimi, per la verità, l’indicavano a dito o lo fissavano a occhi sbarrati.

— Di preciso, chi ci sarà alla festa di questa sera, che possa levarmi questa roba dalle mani?

— Beh, Alexis si vanta di essere un po’ un avventuriero. Potrebbero colpirgli la fantasia. E lui può pagarteli più di quello che ci ricaveresti vendendoli per strada.

— Gli dirai che scottano?

— Probabilmente servirà a fargli apparire l’idea ancora più allettante. È un tipo che ama il brivido.

— Se lo dici tu, amico.

Scendemmo nella sottosotterranea. L’uomo del botteghino fece per prendere la moneta portagli da Hawk, poi alzò gli occhi. Cominciò a pronunciare due o tre parole rese incomprensibili dall’ampio sorriso, poi ci fece cenno di passare.

— Oh, grazie — disse Hawk, con tono d’ingenua sorpresa, come se fosse la prima volta che gli capitava una cosa tanto deliziosa. (Due anni prima mi aveva detto, in tono saggio: — Appena comincio ad avere l’aria di aspettarmelo, non succede più. — Ero ancora impressionato dal modo in cui portava la sua notorietà. La volta che avevo conosciuto Edna Silem, e vi avevo accennato, lei aveva detto, con la stessa aria ingenua: — Ma è per questo che siamo stati prescelti.)

Salimmo in carrozza, sedemmo sul lungo sedile; Hawk teneva le mani posate ai fianchi, un piede appoggiato sull’altro. Più in là, alcune masticatrici di goo, dalle vivaci camicette, ridacchiarono e additarono cercando di non far notare che lo facevano. Hawk non le guardò neppure, e io cercai di non far notare che le guardavo.

Chiazze scure passarono oltre il finestrino.

Qualcosa ronzò sotto il pavimento grigio.

Un sussulto.

Venimmo spinti in avanti; ci staccammo dal suolo.

Fuori, la città si stava provando i suoi mille lustrini, e poi li gettava via, dietro gli alberi di Fort Tryon. All’improvviso, i finestrini di fronte a noi divennero scaglie luminose, dietro le quali passavano le travature di una stazione. Scendemmo sul marciapiedi, sotto una pioggerella finissima. Il cartello diceva TWELVE TOWERS STATION.

Quando arrivammo sulla strada, però, la pioggia era cessata. Il fogliame, al di sopra del muro, spargeva acqua sui mattoni. — Se avessi saputo che avrei portato con me qualcuno avrei detto ad Alex di mandarci a prendere con una macchina. Gli avevo detto che ci sarei andato con cinquanta probabilità su cento.

— Sei sicuro che vada bene se mi accodo a te?

— Non sei già venuto qui con me un’altra volta?

— C’ero stato addirittura prima — dissi io. — Comunque credi che…

Mi lanciò un’occhiataccia. Beh, Spinnel sarebbe stato felice di avere Hawk alla festa, anche se si fosse trascinato dietro un’intera banda di teppisti… i Cantori sono speciali, per questo. Spinnel se la cavava a buon mercato, con un solo ladro più o meno presentabile. Intorno a noi, le rocce si dispersero verso la città. Dietro il cancello alla nostra sinistra, i giardini salivano verso la prima delle torri. I dodici immensi grattacieli di appartamenti di lusso minacciavano le nubi più basse.

— Hawk il Cantore — disse Hawk nel microfono a lato del cancello. Clang e tic-tic-tic e Clang. Percorremmo il sentiero, verso le porte di vetro.

Un gruppo d’uomini e donne in abito da sera stava uscendo in quel momento. Ci videro a tre porte di distanza. Li vedemmo aggrottare la fronte nello scorgere il teppista che si era infilato chissà come nell’atrio (per un momento pensai che una delle donne fosse Maud, perché portava una guaina di stoffa-che-sbiadisce, ma poi si voltò: sotto il velo, il suo volto era scuro come caffé tostato); poi uno degli uomini lo riconobbe, disse qualcosa agli altri. Quando c’incrociarono, sorridevano tutti. Hawk badò loro quanto aveva badato alle ragazze nella sotterranea. Ma quando furono passati, disse: — Uno di quei tipi ti guardava.

— Già. Ho visto.

— Sai perché?

— Cercava di ricordare se c’eravamo già incontrati.

— Ed è vero?

Annuii. — Proprio dove ho incontrato te, ma è stato quando ero uscito di galera. Te l’avevo detto che ero già stato qui una volta.

— Oh.

Un tappeto azzurro copriva tre quarti del pavimento dell’atrio. Una grande vasca riempiva il resto, e c’era una fila di tralicci alti quattro metri, coronati da bracieri fiammeggianti. L’atrio era alto tre piani, a cupola e rivestito di piastrelle a specchio.

Il fumo saliva in spire verso la griglia ornatissima. Sulle pareti, le immagini riflesse si spezzavano e si ricomponevano.

La porta dell’ascensore richiuse i petali intorno a noi. Ebbi la netta sensazione di non muovermi, mentre settantacinque piani sfilavano precipitosamente sotto di noi.

Uscimmo sul giardino pensile. Un uomo molto abbronzato, molto biondo, con un vestito color albicocca, dal cui colletto emergeva un maglione nero, scese dalle rocce (artificiali) tra le felci (vere) che crescevano lungo il ruscello (acqua vera; corrente fasulla).

— Salve! Salve! — Pausa. — Sono terribilmente felice che tu abbia deciso di venire, dopotutto. — Pausa. — Per un po’, ho temuto che non ce l’avresti fatta. — Le Pause avevano lo scopo di permettere a Hawk di presentarmi. Ero vestito in modo tale che Spinnel non poteva capire se ero un premio Nobel con cui Hawk era andato per caso a pranzo insieme, o un furfante dalle maniere e dalla morale ancora peggiori delle mie.

— Debbo toglierti il giubbotto? — si offrì Alexis.

Il che dimostrava che non conosceva bene Hawk come avrebbe voluto far credere alla gente. Ma penso che fosse abbastanza sensibile da capire, grazie alle espressioni fredde passate sul volto del ragazzo, che era meglio lasciar perdere l’offerta.

Mi rivolse un cenno, sorridendo — era più o meno tutto quel che poteva fare — e ci avviammo verso la folla degli invitati.

Edna Silem era seduta su un puff trasparente. Stava protesa in avanti, tenendo il bicchiere con tutte e due le mani, e discuteva di politica con la gente seduta sull’erba davanti a lei. Fu la prima persona che riconobbi (capelli d’argento brunito, voce di bronzo). Le mani grinzose che sporgevano dai polsini dell’abito di taglio maschile, e stringevano il bicchiere, tremando per l’intensità delle sue perorazioni, erano cariche di pietre e d’argento. Mentre volgevo di nuovo lo sguardo verso Hawk, vidi mezza dozzina di individui le cui facce e i cui nomi facevano vendere riviste e musica, facevano accorrere la gente a teatro (il critico del Delta, caso mai non lo sapeste), e c’era persino quel matematico di Princeton che, come avevo letto qualche mese prima, aveva trovato la spiegazione dei quasar-quark.

C’era una donna su cui il mio sguardo tornava continuamente a posarsi. Alla terza occhiata la riconobbi: era la candidata più promettente dei neofascisti alla Presidenza, Regina Abolafia. Teneva le braccia conserte e ascoltava intenta la discussione, ormai circoscritta a Edna e a un uomo più giovane, straordinariamente gregario, con gli occhi gonfi forse a causa del recente acquisto di un paio di lenti a contatto.