Trascorreva quasi tutto il tempo nel laboratorio che gli avevano assegnato a Broughton nord, a supervisionare la costruzione del proiettore temporale. Ewing non possedeva conoscenze scientifiche specifiche; il lavoro vero e proprio era sotto il controllo di un gruppo di tecnici dell’Università. Ma lui li aiutava con suggerimenti e contributi teorici, basati sulle conversazioni con Myreck e sulla propria esperienza personale del fenomeno del viaggio nel tempo.
Trascorsero le settimane. A casa, la vita familiare era tesa, irrequieta. Laira era quasi un’estranea, per lui. Le raccontò quel poco che poteva del soggiorno sulla Terra, ma sin dall’inizio aveva deciso di tenere sempre per sé la verità sui suoi viaggi nel tempo, per cui i suoi racconti erano schematici, parziali.
In quanto a Blade, si riabituò alla presenza del padre. Ma Ewing non si trovava a proprio agio con nessuno dei due. Forse non appartenevano realmente a lui; e, per quanto l’idea fosse assurda, non riusciva ad accettare sino in fondo la realtà della propria esistenza.
C’erano stati altri Ewing. Era assolutamente convinto di essere lui il primo dei quattro, e che gli altri fossero solo semplici duplicati, ma non poteva esserne del tutto certo. E due di quei duplicati si erano sacrificati perché lui potesse tornare su Corwin.
Continuava a pensare a loro, a Myreck, alla Terra, quella Terra che ormai doveva essere un protettorato siriano, quella Terra che aveva mandato nello spazio i suoi figli più coraggiosi e si era ritrovata priva d’ogni energia.
Vide immagini della devastazione operata su Lundquist e Borgman. Lundquist era un mondo di piaceri, un pianeta che attirava turisti da una dozzina di mondi per le sue case da gioco, per i meravigliosi giardini, luminosi e radianti. Le immagini mostravano le torri snelle delle città di sogno di Lundquist che cadevano sotto le armi spietate dei Klodni. Brutali, insensibili, i Klodni avanzavano.
Navi da ricognizione li tenevano sotto controllo. Al momento la loro flotta era ferma su Borgman. Se continuavano a seguire il solito percorso irregolare, sarebbe trascorso quasi un anno prima che uscissero dal sistema di Borgman per attaccare Corwin. E un anno era sufficiente.
Ewing contava i giorni che passavano. La struttura conica del proiettore temporale prendeva forma lentamente, grazie agli sforzi dei tecnici che procedevano nel lavoro servendosi degli schemi di Myreck. Nessuno chiese mai come sarebbe stata impiegata esattamente l’arma. Ewing aveva specificato che doveva essere installata su un’astronave, e di ciò si tenne conto nel progettarla.
Di notte, lo tormentava di continuo il ricordo dell’Ewing che si era lanciato sotto il fuoco incandescente di un’astronave in atterraggio. Poteva succedere a me, pensava. Mi ero offerto volontario. Ma lui ha voluto lanciare la moneta.
E c’era stato un altro Ewing, altrettanto coraggioso, che non aveva mai incontrato. L’uomo che aveva fatto tutto ciò che era necessario per rendersi superfluo, dopo di che, in tutta calma e semplicità, si era ucciso.
Io non ho fatto niente del genere. Ho immaginato che gli altri sarebbero rimasti per sempre prigionieri della ruota del tempo, che io solo mi sarei salvato. Però non è andata così.
Lo ossessionava anche lo sguardo d’accusa di Myreck, quando i due uomini identici di Corwin avevano derubato l’Università dei suoi segreti e abbandonato la Terra al proprio destino. Anche per quello aveva trovato una spiegazione razionale: non avrebbe potuto fare nulla per aiutarli. La Terra era prigioniera dei suoi figli tornati dallo spazio.
Alla fine Laira gli disse che era cambiato, che dopo il viaggio sulla Terra era diventato acido, irascibile.
«Non capisco proprio, Baird. Eri un tipo così dolce, così… umano. E adesso sei diverso. Sei freddo, chiuso in te stesso, sempre preso nei tuoi pensieri». Gli sfiorò dolcemente il braccio. «Non puoi raccontarmi tutto? C’è qualcosa che ti preoccupa. Qualcosa che è successo sulla Terra, forse?».
Lui si allontanò. «No! Niente!». Si accorse di aver usato un tono duro. Sul viso di sua moglie leggeva il dolore. Con voce più dolce, aggiunse: «Non posso farci niente, Laira. Assolutamente niente. Ho subito una tensione violentissima, ecco tutto».
La tensione di veder morire me stesso, di veder morire una cultura. Di viaggiare nel tempo e nello spazio. Mi sono successe un sacco di cose. Troppe, forse.
Si sentiva stanchissimo. Guardò il cielo della notte che risplendeva sopra la cupola trasparente del loro portico. Le stelle erano gemme montate su velluto nero. C’erano le solite, familiari costellazioni: là Tartaruga e la Colomba, la Grande Ruota, la Lancia. Quando si trovava sulla Terra, quelle stelle gli erano mancate. Gli sembravano, allora, dolci aspetti della sua vita quotidiana.
Ma quella notte le stelle erano fredde, lontane. Non avevano nulla di amichevole. Strinse a sé sua moglie e fissò le costellazioni, e gli parve che esprimessero una minaccia selvaggia. Era come se l’orda dei Klodni se ne stesse sospesa su di loro, terrificante nube di pioggia che aspettava solo il momento di iniziare a scaricarsi.
17
L’allarme scattò un mattino di primavera, un anno dopo il ritorno di Ewing su Corwin. Era una giornata calda, dolce. Cadeva una pioggerellina sottile. I deflettori sul tetto di casa si accesero automaticamente; gli accumulatori polarizzati impedivano alle gocce di cadere sul tetto. Ewing dormiva d’un sonno inquieto.
Squillò il telefono. Lui ebbe uno scatto, si girò, affondò il viso nel cuscino. Stava sognando una figura d’uomo che per un attimo si stagliava sotto l’inferno di fiamme di una nave che atterrava, allo spazioporto di Valloin. Il telefono continuò a suonare.
Si accorse confusamente di una mano che lo scrollava. Una voce, la voce di Laira, stava dicendo: «Svegliati, Baird! C’è una chiamata per te! Svegliati!».
Si svegliò, riluttante. L’orologio appeso alla parete gli disse che erano le 4,30. Si sfregò gli occhi, saltò giù dal letto, traversò pigramente la stanza per raggiungere il telefono. Dovette soffocare uno sbadiglio.
«Ewing. Cosa c’è?».
Il tono deciso, un po’ stridulo, della voce del presidente Davidson penetrò nella sua mente offuscata dal sonno. «Baird, i Klodni stanno arrivando!».
Adesso era perfettamente sveglio. «Cosa?».
«I nostri ricognitori ce lo hanno appena comunicato. Il grosso della flotta dei Klodni ha lasciato Borgman quattro ore fa circa. La prima onda d’urto è composta di almeno cinquecento navi».
«Quando dovrebbero raggiungere la nostra zona?».
«Abbiamo stime contrastanti. Non è facile calcolare velocità superiori a quella della luce. Comunque, in base a quanto sappiamo, direi che si troveranno in posizione d’attacco rispetto a Corwin entro non meno di dieci e non più di diciotto ore, Baird».
Ewing annuì. «Bene. Faccia preparare la nave speciale per il decollo immediato. Arrivo subito allo spazioporto e parto».
«Baird…».
«Cosa c’è?», chiese Ewing, impaziente.
«Non credi… Be’, che un uomo più giovane sarebbe più adatto al compito? Non intendo dire che sei vecchio, però hai moglie, un figlio, e si tratta di una missione rischiosa. Un uomo solo contro cinquecento navi? È un suicidio, Baird».
Quella parola scatenò riflessi automatici nella mente di Ewing. Strinse i denti. Poi ribatté caparbiamente: «Il Consiglio ha approvato ciò che sto per fare. Non è certo il momento di addestrare qualcun altro. Ne abbiamo già discusso».
Si vestì in fretta. Per motivi sentimentali indossò l’uniforme blu-oro della Forza Spaziale di Corwin. Dodici anni prima, aveva fatto i due anni obbligatori di leva. L’uniforme gli andava un po’ stretta, ma non troppo.