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— Adesso apri la tua anima — ordinò il confessore; — lascia che vengano in superficie le pene, i sogni, i desideri, i dolori.

— È il figlio dell’Eptarca che fugge da! suo paese — cominciai, e immediatamente il confessore si fece attento, stupefatto di quel che dicevo. Anche senza staccare gli occhi dallo specchio, mi rendevo conto che si stava dando da fare per cercare di leggere la firma che avevo apposto al contratto. — La paura che ha del fratello — continuai, — lo spinge a partire, ma il suo animo è gonfio di pena.

Continuai così per un po’. Il confessore mi incoraggiava quando esitavo, e con l’arte del suo mestiere riusciva a farmi continuare; ben presto, comunque, non ci fu più bisogno della sua mezzaneria, perché le parole sgorgavano veloci. Gli dissi del desiderio che avevo di Halum, del turbamento che mi aveva dato il suo abbraccio, di come ero stato per mentire a Stirron, parlai dell’offesa che avrei fatto a mio fratello non partecipando alle sue nozze; confessai mille piccole colpe di autocompiacimento, di quelle che tutti commettiamo, ogni giorno.

Il confessore ascoltava.

Li paghiamo per ascoltare, nient’altro che per ascoltare, fino a quando ci siamo purificati e placati. Questa è la nostra santa comunione, togliere i rospi dal pantano e metterli nelle loro Case del Dio, assicurandoci la loro pazienza col denaro. Il Comandamento ci consente di dire tutto ad un confessore, anche le cose più disgustose, i sordidi desideri soffocati, le oscenità nascoste. Abbiamo il diritto di annoiarlo, un diritto che non abbiamo coi parenti di legame, perché stendiamo con lui un contratto che lo obbliga a star lì a sentirci, paziente come le montagne. Non dobbiamo preoccuparci dei suoi problemi, né di quel che pensa di noi, né del fatto che probabilmente preferirebbe fare qualcos’altro. Viene chiamato, prende il suo denaro e sta ad ascoltare quelli che hanno bisogno di lui. C’è stato un periodo in cui mi sembrava magnifico che ci fossero i confessori, che con la loro presenza ci liberavano dal dolore. Dovette passare molto, troppo tempo, prima che mi rendessi conto che sfogarsi con un confessore non è più piacevole che far l’amore con la propria mano: ci sono modi migliori di amare, ci sono modi più felici di confessarsi.

Ma allora non lo sapevo, e stavo lì rannicchiato vicino allo specchio a ricevere la miglior purificazione che il denaro mi potesse dare. Tutta la mia pena scivolava via, sillaba dopo sillaba, lentamente come il dolce liquore dei nodosi e repellenti alberi-carne che crescono nel Golfo di Sumar quando si batte sui loro fianchi irti di spine. Mentre parlavo, la magia delle candele mi affascinava: al tremolio luminoso mi persi nella superficie ricurva dello specchio. Ero in un incantesimo, il confessore era solo un’ombra confusa nel buio, irreale, insignificante. Ormai parlavo direttamente col dio dei viaggiatori, che mi avrebbe placato e guidato. Credevo veramente che fosse così. Non che immaginassi che esistesse veramente un posto dove gli dèi convocati venivano ad ascoltarci, ma a quel tempo avevo della religione un’idea astratta e metaforica e mi sembrava che tutto ciò fosse reale, reale come lo è il mio braccio destro.

Il mio flusso di parole s’interruppe e il confessore non cercò di rinnovarlo. Mormorò le parole dell’assoluzione. Era finito. Spense la candela del dio stringendola tra due dita e si alzò per spogliarsi dei paramenti. Io rimanevo in ginocchio, stanco e stravolto dopo la confessione, perso in meditazioni. Mi sentivo pulito, liberato da tutte le macerie che avevo nell’anima, e, nell’armonia del momento, mi accorgevo ben poco dello squallore che mi circondava. La cappella era un luogo magico e il confessore era infiammato di una divina bellezza.

— Su — disse toccandomi con la punta del sandalo. — Fuori. Inizia il tuo viaggio.

Il suono di quella voce stridula ruppe l’incanto. Mi alzai, scossi la testa per risvegliarmi da quella nuova luminosità, mentre il confessore quasi mi spingeva per il corridoio. Non aveva più paura di me, quel brutto omiciattolo, anche se io ero il figlio dell’Eptarca e potevo ucciderlo con uno sputo, perché ormai conosceva la mia codardia, la mia passione proibita per Halum, la mia meschinità, e il sapere tutto questo mi riduceva ai suoi occhi; chi si è appena confessato non può incutere timore al suo confessore.

Pioveva ancora più forte, quando lasciai l’edificio. Noim sedeva accigliato nel carro, con la fronte poggiata sul volante. Guardò in su e fece un cenno per farmi capire che avevo indugiato troppo nella Casa del Dio.

— Ti senti meglio, ora che hai vuotato la vescica? — mi chiese.

— Come?

— Voglio dire, la tua anima ha fatto una buona pisciata, lì dentro?

— Che frase sciocca, Noim!

— Si diventa blasfemi, quando la pazienza viene messa a dura prova.

Avviò il carro e partimmo. In breve raggiungemmo le vecchie mura di Città di Salla, presso la porta di Glin, ornata di torri. La porta era sorvegliata da quattro guerrieri insonnoliti e irritati, con indosso delle uniformi gocciolanti. Non ci prestarono attenzione. Noim oltrepassò il cancello e superammo un cartello che ci dava il benvenuto sulla Grande Strada di Salla. Città di Salla spariva pian piano dietro di noi; ci lanciammo a Nord, verso Glin.

13

La Grande Strada di Salla attraversa una delle nostre zone meglio coltivate, la ricca e fertile Pianura di Nand, che ogni primavera riceve in dono la terra strappata via alla superficie di Salla Occidentale dagli indaffarati torrenti. A quel tempo era Eptarca del distretto di Nand un uomo notoriamente tirchio e, grazie alla sua avarizia, la strada era in pessime condizioni. Come Halum aveva predetto per scherzo, ci trovammo in gravi difficoltà nel procedere in mezzo al fango che ostruiva la strada. Fu un grande sollievo superare Nand ed entrare in Salla Settentrionale, dove il terreno era un misto di roccia e di sabbia. La popolazione viveva di erba e di molluschi che prendeva dal mare.

Nel Nord di Salla era raro vedere dei carri da terra, e per ben due volte i rabbiosi e affamati abitanti, che trovavano offensivo il solo nostro frettoloso passaggio attraverso le loro terre amare, presero a scagliarci delle pietre. La strada era finalmente sgombra dal fango, comunque.

Le truppe del padre di Noim stazionavano nell’estremo Nord di Salla, sulla sponda più bassa del fiume Huish, che è il fiume più vasto di Velada Borthan. Comincia con un centinaio di piccolissimi ruscelletti che discendono lungo i versanti degli Huishtor, nella parte nord di Salla Occidentale e che, a valle, confondono le loro acque sino a formare un torrente grigio e impetuoso che precipita vorticosamente attraverso uno stretto canyon di granito segnato da sei grandi passi. Dopo queste cascate selvagge, l’Huish procede più sereno nel suo piano alluvionale, dirigendosi verso Nord-Est, al mare, e diventando sempre più largo finché, all’ampio delta, si fende e si getta con otto bocche nell’oceano. In questo breve tratto occidentale l’Huish segna il confine tra Salla e Glin, mentre ad Est la sua tranquilla parte finale divide Glin da Krell.

Per tutta la lunghezza di questo grande fiume non esistono ponti e sembrerebbe quasi superfluo fortificare le sue sponde per difenderle da invasori che vengano dall’altra riva; ma più di una volta nella storia di Salla gli uomini di Glin hanno attraversato l’Huish con le navi per attaccarci e altrettante volte noi di Salla abbiamo fatto incursioni a Glin. Né sono migliori i rapporti tra Glin e Krell. Così ci sono degli avamposti militari lungo tutto l’Huish e gente come il generale Luinn Condorit consuma la vita a cercar di distinguere attraverso le nebbie del fiume eventuali tracce del nemico.

Mi trattenni per un tempo molto breve all’accampamento del padre di Noim. Il generale era molto diverso dal figlio: grosso, pesante, con la faccia segnata dal tempo e dalle delusioni al punto da sembrare una mappa della sassosa Nord Salla. In quindici anni, non c’era stato nemmeno uno scontro importante sulla sponda che lui sorvegliava, e mi sembrava che l’ozio forzato l’avesse fatto diventare lugubre: parlava poco, si accigliava spesso, tutto quel che diceva era un amaro brontolio ed a tratti si astraeva dalla conversazione per sprofondare nei suoi sogni. Dovevano essere sogni di guerra: certo non poteva guardare il fiume senza augurarsi che si popolasse di mezzi da sbarco di Glin. Dato che certamente la sponda di Glin era pattugliata da uomini come lui, c’è da chiedersi come mai le guardie costiere non abbiano mai sconfinato per rompere la monotonia coinvolgendo le nostre province in una guerra assurda.