— Vecchio sporcaccione — mormorò Schweiz. — Io!
Lo spinsi nel carro e ci affrettammo verso il porto di Hilminor.
40
La nostra nave era all’ancora, una piccola nave bassa con vele gemelle, vela ausiliaria e la prua dipinta in blu e oro. Ci presentammo al capitano, Khrish era il suo nome — ed egli ci salutò gentilmente, chiamandoci con i nomi che avevamo assunto per l’occasione. Nel tardo pomeriggio ci mettemmo in mare. Durante il viaggio, il capitano e i dieci uomini del suo equipaggio non ci chiesero mai nulla sulle nostre intenzioni. Sicuramente erano curiosissimi di conoscere i motivi che potevano spingere qualcuno ad andare a Sumara Borthan, ma erano così felici di essere usciti dall’ozio forzato che avevano paura di offendere chi dava loro da lavorare, facendo troppe domande.
La costa di Velada Borthan, dietro di noi, non si vedeva più e avevamo davanti soltanto il grande arco aperto dello stretto di Sumar. Non c’era terra né avanti né dietro di noi, e questo mi spaventò. Nella mia breve carriera di marinaio di Glin non mi ero mai allontanato dalla costa e quando c’era burrasca mi ero sempre calmato al consolante anche se assurdo pensiero che, se ci fossimo capovolti, avrei pur sempre potuto raggiungere la costa a nuoto. Ora, invece, l’universo sembrava essere fatto tutto d’acqua. All’avvicinarsi della sera, il tramonto grigio-blu si distese su di noi, cucendo a punti invisibili il cielo all’acqua, e la mia situazione peggiorò: c’era soltanto il nostro piccolo vascello che sussultava e oscillava alla deriva, totalmente vulnerabile in quel vuoto senza direzione e senza dimensione, quel luccicante anti-mondo dove tutti i punti si fondevano in un unico punto inesistente. Non mi aspettavo che lo stretto fosse così vasto. Nella carta geografica che avevo visto soltanto pochi giorni prima al Tribunale, lo stretto era largo solo quanto il mio dito mignolo; avevo immaginato che avremmo potuto vedere le scogliere di Sumara Borthan fin dalle prime ore di viaggio, e invece eravamo là, nel nulla. Mi diressi incespicando nella mia cabina, piombai a faccia in giù nella cuccetta e giacqui lì tremante, chiamando in aiuto il dio dei viaggiatori perché mi proteggesse. Poco per volta arrivai ad odiarmi per la mia debolezza. Ricordai a me stesso che ero figlio di un Eptarca, fratello di un Eptarca e cugino di un altro, che a Manneran ero un uomo molto importante, un capo di casa ed un cacciatore di uccelli-spada, ma non valse a nulla. A che serve un albero genealogico a un uomo che annega? A che servono spalle larghe, muscoli poderosi, a che serve saper nuotare quando la terra stessa è stata inghiottita e un nuotatore non avrebbe dove andare? Cominciai a tremare. Credo di aver pianto. Mi sentivo dissolvere in quel vuoto grigio-blu. Poi una mano toccò leggermente la mia spalla: Schweiz. — La nave è solida — mormorò. — La traversata è corta. Sta calmo, sta calmo, non succederà niente. — Se mi avesse trovato in quelle condizioni un’altra persona, chiunque altro all’infuori forse di Noim, credo che l’avrei ucciso, o avrei ucciso me stesso per seppellire il segreto della mia vergogna.
Dissi: — Se questo è quel che si prova traversando lo stretto di Sumar, come è possibile viaggiare tra le stelle senza impazzire?
— Ci si abitua a viaggiare.
— La paura… il vuoto…
— Vieni di sopra — disse. — È una notte splendida.
Non mentiva: il tramonto si era spento ed una cupola nera punteggiata di gioielli fiammeggianti si stendeva su di noi. Vicino alle città, con le luci e la foschia, non si possono osservare le stelle così bene. Avevo visto la piena gloria dei cieli mentre andavo a caccia nelle Terre Basse Bruciate, certo, ma allora non sapevo i nomi delle cose che vedevo. Ora Schweiz e il capitano Khrish mi stavano a fianco sopra coperta e a turno mi dicevano il nome delle stelle e delle costellazioni, facevano a gara nel dimostrarmi il loro sapere, versavano nelle mie orecchie la loro astronomia come se fossi un bambino terrorizzato cui si possa impedire di gridare soltanto distraendolo continuamente. Vedi? Vedi? E vedi là? Io vidi. Una moltitudine di soli vicini a noi, quattro o cinque dei pianeti vicini al nostro sistema e persino una cometa vagante, quella notte. Non ho dimenticato quanto mi hanno insegnato. Potrei uscire dal mio ricovero qui nelle Terre Basse Bruciate, credo, e dire i nomi delle stelle così come Schweiz e il capitano li dissero a me a bordo della nave nello Stretto di Sumar. Quante notti mi rimangono, mi chiedo, per guardare le stelle? Con l’alba la paura finì. Il sole era brillante, il cielo aveva qualche fiocco bianco, l’ampio stretto era calmo e non m’importava più che non ci fosse terra in vista. Scivolammo verso Sumara Borthan in modo quasi impercettibile: dovevo osservare attentamente la superficie del mare per ricordarmi che ci stavamo muovendo. Un giorno, una notte, un giorno, una notte, un giorno e poi all’orizzonte spuntò una crosta verde. Sumara Borthan. Era un punto fermo per me anche se mi sembrava che fossimo noi il punto fermo e Sumara Borthan che si avvicinava. Il continente meridionale scivolò piano verso di noi sinché finalmente vidi un cornicione di nuda roccia giallo-verdastra che si allungava da Est a Ovest. In cima alle nude scogliere si alzava un folto cappello di vegetazione, maestosi alberi legati insieme da pesanti liane a formare un baldacchino chiuso, cespugli più bassi che si raggruppavano nel buio sottostante, il tutto tagliato giù di fianco come per rivelarci l’angolo della giungla in sezione. Non provai paura ma meraviglia a quella vista. Sapevo che nemmeno uno di quegli alberi e di quelle piante cresceva in Velada Borthan; gli animali, i rettili, gli insetti non erano quelli del mio continente. Ciò che avevamo davanti era strano e forse ostile, un mondo sconosciuto che aspettava le prime impronte. In un turbine di fantasie confuse, precipitai nel pozzo del tempo e vidi me stesso come un esploratore che squarciava il velo di mistero di un pianeta appena scoperto. Quelle rocce gigantesche, quegli alberi snelli dall’alta chioma, quelle liane che ondeggiavano come serpenti, erano tutti prodotti di un mistero crudo, elementare, appena uscito dal ventre dell’evoluzione, un mistero che io stavo per penetrare. Quella giungla scura era la porta verso qualcosa di strano e di terribile, pensavo, ma ero più commosso che spaventato, scosso profondamente, alla vista di quelle scogliere lucide e di quei sentieri tentacolari. Era il mondo com’era prima dell’arrivo dell’uomo. Era il mondo com’era quando non c’erano templi, confessori e tribunali del porto: soltanto i silenziosi, ombrosi sentieri, i fiumi gonfi che purificano le valli, i laghetti senza drenaggio, le lunghe foglie pesanti che brillano alle esalazioni della giungla, gli animali preistorici mai cacciati da alcuno che si rotolano nel fango, gli esseri alati che volteggiano senza conoscere la paura, gli altopiani erbosi, le vene di metalli preziosi, un regno vergine. Su tutto questo, in agguato, la presenza degli dèi, del dio, del dio in attesa degli adoratori. Gli dèi solitari che non sapevano ancora di essere divini. La divinità solitaria.
Naturalmente la realtà non era affatto così romantica. C’era un punto in cui le scogliere si tuffavano nel mare formando un porto a semiluna e là sorgeva una squallida colonia, le capanne di poche dozzine di sumariani che vivevano lì per venire incontro alle necessità delle navi che arrivano di tanto in tanto dal continente settentrionale. Avevo creduto che tutti i sumariani vivessero nell’interno, nude tribù accampate giù presso il picco vulcanico di Vashnir, e che Schweiz ed io avremmo dovuto conquistarci un passaggio attraverso tutta l’immensità apocalittica di quella terra misteriosa, senza guida e senza sicurezze, prima di trovare un’ombra di civiltà e di incontrare qualcuno che potesse venderci quello che eravamo venuti a cercare. Invece, il capitano Khrish guidò abilmente a riva il suo piccolo vascello presso una banchina che cadeva a pezzi e, non appena scesi a terra, si fece avanti una piccola delegazione di sumariani ad offrirci un imbronciato benvenuto.