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Conoscete già la mia fantasia di terrestri grotteschi e dotati di artigli: nello stesso modo mi aspettavo istintivamente qualche stranezza nella gente del continente meridionale. Sapevo che era assurdo, dopo tutto provenivano dallo stesso ceppo degli abitanti di Salla, di Manneran e di Glin, ma tutti quei secoli passati nella giungla non avrebbero potuto averli trasformati? Il loro rifiuto del Comandamento non li aveva forse esposti all’infiltrazione dei vapori della foresta e trasformati in qualcosa d’inumano? No e no. Avevano l’aspetto dei contadini di una qualsiasi provincia interna. Oh, portavano degli ornamenti poco familiari, strani pendenti gemmati, e braccialetti di una forma diversa da quelli di Velada, ma non c’era niente in loro che li rendesse differenti dagli uomini che avevo sempre conosciuto, né il colore della pelle, né la forma del volto, né il colore dei capelli.

Ce n’erano otto o nove. Due di loro, evidentemente i capi, parlavano il dialetto di Manneran, anche se con un accento terribile. Gli altri non davano segno di capire i linguaggi del Nord e parlavano tra loro in una lingua a base di schiocchi e di grugniti. Schweiz trovò il parlare con loro più facile di quanto non lo trovassi io e si buttò in una interminabile conversazione che io trovavo difficilissima da seguire, tanto che ben presto smisi di prestarvi attenzione. Andai a dare un’occhiata in giro per il villaggio e fui a mia volta esaminato dagli occhioni spalancati dei bambini, là le ragazze giravano nude anche dopo che erano loro spuntati i seni, e quando ritornai Schweiz mi disse: — È tutto combinato.

— Che cosa?

— Stasera dormiremo qui e domani ci condurranno in un villaggio dove si produce la droga. Ma non garantiscono che potremo comperarne.

— La vendono soltanto in certi posti?

— Pare di sì. Giurano che qui non ce n’è disponibile.

Chiesi: — Quanto durerà il viaggio?

— Cinque giorni. A piedi. Ti piacciono le giungle, Kinnall?

— Non conosco ancora il loro sapore.

— È un sapore che conoscerai molto presto.

Si voltò a parlare col capitano Khrish che stava decidendo di fare per conto suo una spedizione lungo la costa sumarana. Schweiz prese accordi con lui perché la nave fosse lì ad attenderci al nostro ritorno dalla gita nella giungla. Gli uomini di Khrish scaricarono il nostro bagaglio, per lo più mercanzia di scambio, specchi, coltelli e ninnoli, dato che i sumariani non sanno cosa farsene della moneta di Velada, e uscirono con la loro nave nello stretto prima del cader della notte.

Schweiz ed io avevamo una capanna tutta per noi su un cornicione di roccia che sovrastava il porto. Materassi di foglie, coperte di pelli di animali, una finestra sbilenca, nessun conforto sanitario: questo era quanto ci avevano portato migliaia di anni di viaggi umani tra le stelle. Discutemmo sul prezzo dell’alloggio, ci accordammo sui coltelli e sulle sbarre-calore ed al tramonto ci fu data la nostra cena, uno stufato di carni piene di spezie stranamente appetitoso, degli angolosi frutti rossi, un tegame di vegetali poco cotti, una tazza di qualcosa che avrebbe potuto essere latte fermentato. Mangiammo tutto quel che ci dettero e con più gusto di quanto ci fossimo aspettati, sia pure scherzando, un po’ preoccupati, sulle malattie che probabilmente ci saremmo presi. Libai al dio dei viaggiatori, più per abitudine che per convinzione. Schweiz disse: — Dunque ci credi ancora, dopotutto. — Risposi che non avevo nessuna ragione per non credere negli dèi, anche se la mia fede negli insegnamenti degli uomini si era parecchio indebolita.

Vicini all’equatore com’eravamo, il buio arrivò rapidamente, come se all’improvviso scendesse una tenda nera. Rimanemmo per un po’ seduti fuori. Schweiz mi insegnava un altro po’ d’astronomia e mi faceva delle domande su quello che già avevo imparato. Poi ce ne andammo a letto. Meno di un’ora più tardi, due figure entrarono nella nostra capanna: io ero ancora sveglio e mi rizzai a sedere all’istante, immaginavo che fossero ladri o assassini ma, mentre a tentoni andavo alla ricerca di un’arma, un raggio di luna mi mostrò il profilo di uno degli intrusi e potei vedere dei seni pendenti. Schweiz dal suo angoletto scuro disse: — Penso che siano incluse nel prezzo della nottata. — Un istante dopo, della calda carne nuda si premeva contro di me. Sentii un odore pungente e toccai una coscia grassa, cosparsa di un olio aromatico: un cosmetico sumarnu, come scoprii più tardi. La curiosità e la prudenza lottavano dentro di me. Come quando da ragazzo vivevo in affitto a Glain, avevo paura di prendermi qualche malattia dal ventre di una donna di un’altra razza. Avrei forse dovuto rinunciare a provare l’amore meridionale? Dall’angolo di Schweiz si sentiva il suono di carne che sbatteva contro altra carne, di risa allegre, di liquidi rumori di labbra. La mia ragazza si dimenava, impaziente. Aprendole le cosce grassocce esplorai, svegliai, entrai. La ragazza si girò in quella che pensai fosse la posizione consueta dei nativi: giaceva sul fianco, faccia a faccia con me, con una gamba buttata su di me e col tallone che spingeva duramente contro il mio posteriore. Non avevo avuto una donna dalla mia ultima notte a Manneran: questo e il mio antico problema dell’urgenza furono la mia rovina ed il mio sfogo, come al solito, fu prematuro. La mia ragazza gridò qualcosa alla sua compagna che gemeva e sospirava nell’angolo di Schweiz e ne ricevette in risposta una risatina: probabilmente derideva la mia virilità. Rabbioso e addolorato, mi sforzai di rivivere e spingendo lentamente, con serietà, la possedetti di nuovo, anche se la puzza del suo alito quasi mi paralizzava e il suo sudore, mescolandosi con l’olio che aveva addosso formava un composto chimico nauseabondo. La portai oltre il limite del piacere, ma fu un lavoro senza gioia, stancante. Quando fu finito mi mordicchiò il gomito coi denti: un bacio sumarnu, penso che fosse; la sua gratitudine, le sue scuse. Le avevo fatto un buon servizio, dopotutto. La mattina dopo sbirciavo le ragazze del villaggio domandandomi quale di loro mi avesse onorato delle sue carezze. Tutte avevano la bocca semiaperta, i seni cascanti, gli occhi da pesce: mi auguro che la mia compagna di letto non sia stata una di quelle che vidi. Per diversi giorni, dopo, continuai ad osservare il mio organo, aspettandomi ogni mattina di scoprire macchie rosse e piaghe purulente; ma l’unica cosa che avevo preso da lei era il disgusto per il modo sumariano di fare all’amore.

41

Cinque giorni. Sei, in realtà: o Schweiz aveva capito male o il capo sumariano non sapeva contare. Avevamo una guida e tre portatori. Non avevo mai camminato tanto, prima di allora: dall’alba al tramonto, col terreno che affondava o risucchiava sotto i piedi. La giungla si alzava come una parete verde ai lati dello stretto sentiero. C’era un’umidità incredibile quasi nuotavamo nell’aria, peggio che nei peggiori giorni di Manneran. Insetti con gli occhi che sembravano pietre preziose e becchi terrificanti, cose dalle molte zampe che ci superavano scivolando nel verde, grida di lotte e di orrore nel sottobosco, appena appena fuor di vista. La luce del sole scendeva a strisce e chiazze, riusciva appena a penetrare attraverso il baldacchino soprastante. C’erano dei fiori che sbocciavano dai tronchi degli alberi: parassiti, spiegò Schweiz. Uno era una grossa cosa gialla con un volto umano, grandi occhi e una bocca spalancata cosparsa di polline. Un altro era ancora più bizzarro, perché dal centro dei suoi petali rossi e neri si alzava una parodia degli organi genitali, un fallo che sembrava di carne con due testicoli pendenti. Schweiz, ridendo a crepapelle, afferrò il primo che incontrammo: chiuse la mano intorno all’organo floreale, ci scherzò e lo massaggiò in modo scandaloso. I Sumariani si misero a borbottare: forse si chiedevano se avevano fatto bene a mandare le ragazze nella nostra capanna, quella notte.