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Quello che io ritenni il Rito della Presentazione della Fiasca continuò; all’inizio ero affascinato, deliziato dalla stranezza della cerimonia: ma non ci volle molto perché la cosa cominciasse a venirmi a noia, e tentai di distrarmi cercando di inventare un’interpretazione spirituale di quel che succedeva. Il tunnel, decisi, simboleggiava l’apertura genitale del mondo-madre, la strada verso il suo utero da cui la droga, fatta da una radice, da qualcosa che nasceva sottoterra, si poteva ottenere. Inventai un’elaborata ricostruzione metafisica che coinvolgeva un culto della madre, il significato simbolico del trasportare una fiaccola accesa nella vagina del mondo-madre, l’uso di ragazze belle e brutte per significare l’universalità della femminilità, i due giovani sorveglianti del fuoco come guardiani della potenza sessuale dei capi, e molte altre cose. Tutte sciocchezze ma, pensavo, un’elaborazione piuttosto notevole per un burocrate dalle non grandi facoltà intellettuali come me. Il piacere che mi davano quelle riflessioni scomparve bruscamente quando mi resi conto che stavo semplicemente facendo il saccente. Trattavo i sumariani come se fossero degli strani selvaggi, come se le loro cantilene e i loro riti offrissero un leggero interesse estetico ma assolutamente nessun contenuto serio. Chi ero io, per prendere quell’aria di superiorità? Ero andato da loro a chiedere la droga illuminante, no? Quella droga che desideravo con tutta l’anima: chi era tra noi l’essere superiore, allora? Mi rimproverai la mia vanità. Sii colmo d’amore. Metti da parte la sofisticheria cortigiana. Prendi parte al loro rito, se puoi, o perlomeno non mostrare disprezzo, non sentire disprezzo, non avere disprezzo. Sii colmo d’amore. Adesso i capi stavano bevendo: ciascuno prendeva un sorso e rendeva la fiasca alla ragazza bruttina. Quando tutti e tre ebbero bevuto, ella cominciò a muoversi nel circolo, portò la fiasca prima agli anziani, poi alla vecchia, poi alla ragazza bella poi ai giovani che sorvegliavano il fuoco, poi a Schweiz, poi a me. Mi sorrise porgendomi la fiasca. Alla luce delle fiamme danzanti sembrò farsi improvvisamente bella. La fiasca conteneva un vino caldo e sciropposo: quasi rigurgitai, bevendo. Ma bevvi. La droga entrò nelle mie viscere e di lì cominciò il viaggio verso la mia anima.

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Divenimmo una sola entità, loro dieci e noi due. In principio ci furono l’assurda sensazione di fluttuare nell’aria, l’acuirsi della percezione, la perdita dell’equilibrio, le luci celestiali, i suoni bizzarri: poi la ricezione di altri battiti di cuore, dei ritmi di altri corpi, lo sdoppiarsi, il sovrapporsi delle diverse coscienze; poi venne la dissoluzione dell’io: noi, che eravamo stati dodici, diventammo uno. Fui immerso in un mare di anime e mi sentii morire. Morii. Fui trascinato nel Centro di Tutte le Cose. Non avevo modo di sapere se ero Kinnall, il figlio dell’Eptarca, o Schweiz, l’uomo della vecchia Terra, o i custodi del fuoco, i capi, i sacerdoti, le ragazze, la sacerdotessa. Perché erano tutti inestricabilmente confusi in me ed io in loro. E quel mare di anime era un mare d’amore. Come avrebbe potuto essere diversamente? Ciascuno di noi era l’altro. L’amore di se stessi ci legava l’uno all’altro, tutti a tutti. L’amore di sé è l’amore per gli altri, l’amore per gli altri è amore di sé. Ed io amavo. Capivo, come mai prima, perché Schweiz mi avesse detto «Io ti amo» dopo che furono svaniti gli effetti della droga, quella prima volta: quella frase assurda, così oscena a Borthan, in ogni modo così incongrua per un uomo che parla ad un altro uomo. Dissi ai dieci sumariani «Io vi amo», non a parole, perché non avevo parole che potessero capire e perché se pure avessi parlato nella mia lingua ed essi avessero potuto comprendermi si sarebbero risentiti: per la mia gente «Io ti amo» è un’oscenità, non c’è niente da fare. Io vi amo. Ero sincero ed essi accettarono il dono del mio amore. Io che ero parte di loro. Io che poco prima mi sentivo superiore e li vedevo come divertenti selvaggi in adorazione di fuochi rituali nei boschi. Attraverso di loro sentivo i suoni della foresta, l’alzarsi e l’abbassarsi delle maree e, certo, il pietoso amore della grande terra-madre che giace sospirando sotto i nostri piedi e che ci ha donato la droga-radice che guarisce le nostre anime divise. Capii cosa significa essere sumariano e vivere là dove i due piccoli fiumi si congiungono. Scoprii come si può fare a meno di carri da terra e di barche ed essere lo stesso uomini civili. Scoprii che razza di mezze anime avevano fatto di se stessi, in nome della santità, quelli di Velada Borthan e come si poteva arrivare a completarsi, seguendo i Sumariani. Tutto questo non venne a me con parole o immagini, ma in un flusso di conoscenza ricevuta, conoscenza che entrò in me e divenne parte di me in un modo che non si può né descrivere né spiegare. Mi sembra già di sentirvi dire che devo essere bugiardo o pigro, per offrirvi, come ho fatto, la mia esperienza in modo così misero. Ma non si può dire a parole ciò che non è mai stato a parole. Lo si può fare soltanto in modo approssimativo, ed il migliore dei nostri sforzi non può essere altro che una distorsione, una goffa immagine della realtà; perché io dovrei trasformare le sensazioni in parole, buttarle giù come posso, e poi vi dovreste prendere dalla pagina le parole e convertirle nel sistema di percezioni che la vostra mente usa abitualmente, quale che sia. Ad ogni stadio di questa trasmissione, un livello di densità scivolerebbe via finché a voi rimarrebbe soltanto l’ombra di quello che accadde a me nella radura di Sumara Borthan. Così, come potrei spiegare? Eravamo disciolti l’uno nell’altro, eravamo disciolti in amore. Noi, che non avevamo un linguaggio comune, arrivammo alla comprensione totale delle nostre identità separate. Quando infine la droga lasciò la sua presa, parte di me rimase in loro e parte di loro rimase in me. Se volete saperne di più, se volete avere un’idea di quel che significhi essere liberati dalla prigione del proprio cranio, se volete assaggiare l’amore per la prima volta nella vostra vita, io vi dico: non cercate spiegazioni nelle parole, portate la fiasca alle labbra. Portate la fiasca alle labbra.

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Avevamo superato la prova. Ci avrebbero dato ciò che volevamo. Dopo aver diviso l’amore cominciammo a contrattare. Ritornammo al villaggio e alla mattina i nostri portatori tirarono fuori le casse di mercanzie e i tre capi tre bassi vasi di argilla nei quali si poteva intravvedere la polvere bianca. Facemmo un alto mucchio di coltelli, specchi e sbarre-calore, mentre loro versavano con cautela la polvere da due ciotole nella terza. Del mercanteggiare si occupò quasi esclusivamente Schweiz. La guida che avevamo portato dalla costa ci era di poco aiuto, perché, anche se parlava il linguaggio dei capi, non aveva però mai parlato alle loro anime. Quel mercanteggiare, infatti, si mutò all’improvviso: Schweiz ammucchiava gioiosamente sempre più ninnoli, i capi gli rispondevano aggiungendo polvere alla nostra ciotola e tutti ridevano con una specie di allegria isterica mentre la gara di generosità cresceva in frenesia. Finimmo col dare alla gente del villaggio tutto quel che avevamo, salvo pochi oggetti che tenemmo per regalarli alla guida e ai portatori e ci ritrovammo con tanta di quella droga da schiudere migliaia di menti.