Il capitano Khrish ci stava aspettando, quando raggiungemmo il porto.
— Si capisce che avete fatto un buon viaggio — osservò.
— È così evidente? — chiesi.
— Eravate preoccupati, quando siete andati. Ora che tornate, siete contenti. Sì, è evidente.
La prima notte del nostro viaggio di ritorno a Manneran, Schweiz mi chiamò nella sua cabina. Aveva tirato fuori la ciotola con la polvere bianca e aveva rotto il sigillo. L’osservai mentre versava con cautela la droga in piccoli pacchetti simili a quello della prima dose. Lavorava in silenzio, guardandomi appena; riempì circa settanta o ottanta pacchetti. Quando ebbe finito, ne contò una dozzina e li spinse da un lato. Indicando gli altri disse: — Questi sono per te. Nascondili bene nel bagaglio o avrai bisogno di tutto il tuo potere al Tribunale del Porto per farli passare con sicurezza.
— Mi hai dato cinque volte di più di quanto hai preso — protestai.
— Tu ne hai più bisogno di me.
45
Non capii cosa avesse voluto dire finché non fummo a Manneran. Sbarcammo a Hilminor, pagammo il capitano Khrish, passammo attraverso un minimo di formalità d’ispezione (com’erano fiduciosi gli ufficiali di porto, non molto tempo fa!) e ci avviammo verso la capitale col nostro carro da terra. Entrando nella città di Manneran dalla via Sumar, attraversammo una zona affollata di mercati e di negozi all’aperto, dove vidi migliaia di Manneriani che si davano un gran daffare, mercanteggiavano e litigavano. Li vidi contrattare ferocemente e tirar fuori i moduli dei contratti per concludere gli affari. Vidi le loro facce tirate, guardinghe, gli occhi freddi e senza amore. E pensai alla droga che portavo con me e mi dissi: Se soltanto potessi cambiare le loro anime gelate. Mi vedevo andare tra loro, accostare gente che non conoscevo, tirare da parte questo o quello, sussurrare dolcemente: — Io sono un principe di Salla e un alto funzionario del Tribunale del Porto, ho rinnegato tutte queste cose vuote per portare la felicità all’uomo, e vorrei mostrarvi come si può trovare la gioia col rivelarsi agli altri. Abbiate fiducia in me: io vi amo. — Senza dubbio qualcuno sarebbe scappato via non appena avessi iniziato a parlare, spaventato da quella oscenità iniziale: «Io sono». Altri forse mi avrebbero ascoltato fino in fondo, ma poi mi avrebbero sputato in faccia e mi avrebbero chiamato pazzo, altri ancora avrebbero chiesto l’intervento della polizia. Ma forse ce ne sarebbero stati alcuni, pochi, che mi avrebbero ascoltato, sarebbero stati tentati e sarebbero venuti con me in una stanza quieta delle banchine, dove avremmo potuto dividerci la droga sumariana. Ad una ad una avrei aperto anime, finché non ci fossero a Manneran dieci come me, venti, cento, una società segreta di «esibizionisti» che si riconoscerebbero l’un l’altro dal calore e dall’amore dei loro occhi, che girerebbero per la città a dire senza paura «io» e «me» ai loro compagni iniziati, che rinuncerebbero non solo alla grammatica di cortesia ma anche al velenoso rifiuto dell’amore di sé che tale grammatica implica. Ed io avrei ingaggiato di nuovo il capitano Khrish per un altro viaggio a Sumara Borthan, sarei tornato carico di pacchetti di polvere bianca e avrei continuato la mia opera in Manneran, io e quelli come me, e saremmo andati da questo e da quello, sorridenti, radiosi, a mormorare: — Vorrei mostrarvi come trovare la gioia col rivelarsi agli altri. Abbiate fiducia in me: io vi amo.
In questa mia visione non c’era posto per Schweiz. Non era il suo pianeta, non aveva nessun motivo per volerlo trasformare. Tutto quel che l’interessava era la sua esigenza spirituale, la sua fame di arrivare alla percezione della divinità. C’era già riuscito in parte e poteva portare avanti la cosa da sé, per conto suo. Schweiz non aveva bisogno di girare di soppiatto per la città seducendo sconosciuti. Questa era la ragione per cui aveva dato a me la maggior parte del bottino sumariano: io ero l’evangelista, il nuovo profeta, il messia dell’anima rivelata, e Schweiz lo aveva capito prima di me. Fino ad allora era stato lui il capo: si era guadagnato la mia confidenza, mi aveva spinto a provare la droga, mi aveva attirato a Sumara Borthan, si era servito del mio potere al Tribunale del Porto, mi aveva tenuto al suo fianco per avere compagnia, sicurezza e protezione. Io ero sempre rimasto in ombra; ma ora avrebbe smesso di eclissarmi. Da solo, armato dei miei piccoli pacchetti, mi sarei lanciato in una missione che avrebbe cambiato il mondo.
Era un ruolo che interpretavo volentieri. Per tutta la vita ero stato spinto nell’ombra da qualcuno. Malgrado la mia forza fisica e la mia abilità mentale ero arrivato a considerarmi una persona di seconda scelta. Forse era un fatto normale, dato che ero il secondo figlio di un Eptarca. Prima c’era stato mio padre, che non avrei mai potuto sperare di uguagliare in autorità, agilità e forza; poi Stirron, la cui regalità mi aveva portato soltanto l’esilio; poi il mio padrone nel campo dei taglialegna; poi Segvord Helalam; poi Schweiz. Tutti uomini decisi; di prestigio, che sapevano qual era il loro posto nel mondo, e sapevano mantenerselo, mentre io vagavo confuso. Adesso, a mezz’età, potevo finalmente farmi valere. Avevo una missione, avevo uno scopo. Le filatrici della divina volontà mi avevano portato sin là, avevano fatto di me quel che ero, mi avevano preparato alla mia missione. Accettavo con gioia il loro comando.
46
C’era una ragazza che mantenevo per mio piacere in una stanza della parte Sud di Manneran, in un incrocio di vecchie strade dietro alla Cappella di Pietra. Diceva di essere una bastarda del duca di Kongoroi, concepita durante una visita di Stato del duca a Manneran, nei giorni del regno di mio padre. Forse la sua storia era vera. Certamente lei ci credeva. Avevo l’abitudine di andar da lei per un’ora di piacere due o tre volte ogni periodo lunare, quando mi sentivo soffocare dalla monotonia della mia vita, quando sentivo la mano della noia stringermi alla gola. Era semplice ma appassionata: calda, disponibile, senza pretese. Non le nascosi la mia identità, ma non le diedi nulla di me stesso, né d’altra parte lei se lo aspettava; parlavamo pochissimo e non c’era certo amore, tra noi. In cambio del prezzo del suo alloggio mi lasciava di tanto in tanto usare il suo corpo. La transazione non era più complicata di così: un contatto di epidermidi, uno starnuto dei lombi. Fu la prima cui diedi la droga. La mescolai con del vino dorato. — Berremo questo — dissi, e quando mi chiese perché, risposi: — Ci avvicinerà di più l’uno all’altra. — Chiese senza troppa curiosità, che effetto ci avrebbe fatto. — Rivelerà le nostre anime e renderà le mura trasparenti — spiegai. Non protestò, non parlò del Comandamento, non tirò in ballo la privacy, non fece prediche sull’indegnità del rivelare la propria anima. Fece quel che le dicevo, convinta che non le avrei fatto del male. Prendemmo la dose e poi ci sdraiammo nudi sul suo divano aspettando che cominciassero gli effetti della droga. Accarezzai le sue cosce fresche, le baciai i capezzoli, le mordicchiai scherzosamente i lobi delle orecchie. Ben presto le strane sensazioni incominciarono, il ronzio, il frusciare dell’aria, cominciammo ad individuare i battiti del cuore e le pulsazioni dell’altro. — Oh! — fece, — oh, ci si sente così strani! — Ma non si spaventò. Le nostre anime fluttuarono e si fusero nella chiara luce bianca che veniva dal Centro di Tutte le Cose. E io scoprii cosa si prova ad avere soltanto una fessura tra le cosce, e imparai come si scuotono le spalle, e si hanno seni pesanti che sbattono insieme, sentii le uova pulsare impazienti nelle mie ovaie. All’apice del viaggio, unimmo i nostri corpi. Sentii la mia verga scivolare nella mia caverna. Sentii me stesso muovermi contro me stesso, sentii la lenta succhiante oceanica marea dell’estasi levarsi dal mio scuro, caldo, umido centro intimo, sentii il caldo pungente solletichio dell’estasi imminente danzare sul mio organo, sentii lo scudo duro e peloso del mio petto schiacciarsi contro le tenere rotondità del mio seno, sentii labbra sulle mie labbra, lingua sulla mia lingua, l’anima sulla mia anima. L’unione dei nostri corpi durò delle ore, così mi parve, per lo meno. E per tutto quel tempo la mia anima rimase aperta per lei e lei poteva vedere tutto quel che voleva, la mia fanciullezza a Salla, la mia fuga a Glin, il mio matrimonio, l’amore che portavo alla mia sorella di legame, la mia debolezza, le mie incoerenze. Io guardai dentro di lei e vidi la sua dolcezza, la sua leggerezza, il sangue della prima mestruazione sulle sue cosce, il sangue di altre mestruazioni, Kinnall Darival quale lei lo aveva dentro di sé, vaghi e informi rudimenti del Comandamento e ancora tutto quel che formava la sua anima. Poi fummo trascinati via dall’uragano dei nostri sensi. Sentii il suo orgasmo e il mio, il mio e il mio, il suo e il suo, la doppia e unica colonna di frenesia, lo spasmo e l’emissione, lo spingere e lo spingere, il salire e il discendere. Giacemmo sudati, appiccicaticci ed esausti, mentre la droga ancora palpitava nelle nostre menti estenuate. Aprii gli occhi e vidi i suoi, vitrei, con le pupille dilatate. Mi rivolse un sorriso strano. — Io — io — io — io — io — disse. — Io! — Era stupefatta, stordita. — IO! — Io! — Io!