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— Mi spiace tanto, Leila — mormorò. — Mi spiace di essere possessivo, mi spiace di aver pensato che sei fredda come il ghiaccio, mi spiace di averti trafitta con quel coltello… Leila! Leila!

L’incubo cominciò in sordina. Sembrava un incubo di seconda classe.

Redpath, che era un esperto in faccende del genere, aveva studiato il suo sistema di classificazione in gioventù. Gli incubi di prima classe erano i peggiori, quelli che violentavano l’anima, che distruggevano la mente; erano i sogni da cui si svegliava urlando e che lo costringevano a vedere l’alba leggendo giornali in cucina. Rimettersi a dormire sarebbe stato un rischio, perché il suo inconscio era stato contaminato da qualcosa di orribile, da una presenza mostruosa che solo la luce del mattino poteva disperdere. Redpath sapeva benissimo che gli incubi di prima classe erano tanto terribili perché all’inizio non sembravano incubi, e così lui si trovava del tutto indifeso, era portato a credere che si trattasse di avvenimenti reali.

Un incubo di seconda classe poteva essere altrettanto spaventoso; solo che in quel caso entrava in gioco una sorta di sdoppiamento di coscienza, e lui sapeva che si trattava di un sogno, e quindi era al sicuro. Era in grado di affrontare gli incubi di seconda classe, di interessarsi da un punto di vista distaccato, quasi accademico, a quel gioco d’ombre. Sì, era impaurito; ma era la stessa paura piacevole, normale, che provava da ragazzo quando andava a vedere un film dell’orrore, perché allora poteva sempre staccare gli occhi dallo schermo e guardare le insegne luminose delle uscite di sicurezza, o il soffitto del cinematografo.

Si trovava sulle scale della casa di Raby Street, guardava giù nell’atrio, e sapeva che si trattava di un sogno perché il pavimento dell’atrio era stranissimo. Troppo grande, troppo spazioso; e al posto del linoleum grigio c’erano mattonelle color verde pallido e crema, con disegni in rilievo. Si trattava ovviamente del pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons.

“Attenzione! Pericolo!”

Redpath ricordò la visione del mattino, l’ammasso di sangue semicoagulato che avanzava verso di lui, e si tese; ma il pavimento era di uno splendore immacolato. Stava succedendo qualcos’altro, però. Alcune mattonelle diventavano blu e trasparenti come ametiste, e sembrava che sotto, più in basso, ci fossero delle luci accese. Sotto il pavimento si muovevano cose strane, minuscole.

“Strano! Inquietante, ma non pauroso. Davvero strano!”

Si girò, si trovò sul pianerottolo. Si avviò verso la finestra col giglio. Alla sua sinistra c’erano due porte: una camera da letto e un bagno. Alla sua destra, una sola porta, la camera da letto di Albert. La porta era leggermente aperta. Guardò nella stanza e vide che Albert, che indossava ancora la tuta grigia e gli stivali, dormiva sul letto. Non esattamente sul letto, però. Fluttuava per aria, a circa un metro dalle lenzuola, e sotto il suo corpo filtravano i raggi del sole. Le sue mani enormi si contraevano ogni tanto.

“Curioso, davvero curioso!”

Adesso Redpath era di nuovo sul pianerottolo, scendeva le scale verso l’atrio, che aveva ripreso il suo aspetto normale. La casa era immersa in un silenzio assoluto. Sembrava che ci fossero solo lui e Albert. Betty dov’era? In cucina? Arrivò a pianterreno, fece sei passi in direzione della cucina e aprì la porta. La stanza era lunga e deserta. I piatti scolavano sul lavandino di porcellana, il frigorifero ronzava assorto in un angolo. Sulla sua destra c’era un’altra porta, verniciata d’un rosso scarlatto completamente assurdo. Non era certo il colore più adatto per una cucina. Cosa si trovava dietro quella porta? La dispensa?

Redpath si sentì spinto verso la porta, fu costretto ad aprirla. Trovò scalini di pietra che portavano nel buio di una cantina.

“Ehi, comincia a non piacermi. Sta diventando troppo vero. È possibile che un incubo di seconda classe si trasformi in un incubo di prima classe, che degeneri a questo punto?”

Redpath cominciò a scendere gli scalini, a passi lentissimi. Adesso il suo respiro era affannoso, una paura mostruosa gli stringeva il petto, eppure non riusciva a tornare indietro. La mancanza di illuminazione rendeva difficile capire dove finissero gli scalini e dove cominciasse il pavimento della cantina.

“Stai pronto a correre via, questo è l’importante. Non fidarti. Al primo segno di vita, fosse anche un topolino, scappa subito, e ti salverai. La paura ti mette le ali ai piedi, lo sai.”

Si fermò sull’ultimo gradino, appena visibile, aspettando che i suoi occhi si abituassero all’oscurità. La cantina era più calda del previsto, e l’aria pesante. Pesante, dolciastra, nauseante…

“Attento!”

Redpath girò la testa cercando disperatamente di scorgere un movimento; e quando lo percepì, si rese conto che quel movimento esisteva da sempre, che non se n’era accorto perché si aspettava un movimento minimo, localizzato, mentre fin dall’inizio le pareti e il soffitto e il pavimento della cantina si stavano muovendo. Erano di un colore rosso scuro e risplendevano nel buio, e palpitavano dolcemente, avidi. E adesso si protendevano verso di lui, volevano stringerlo in una morsa invisibile…

“Dio, questa cantina è uno stomaco!”

“Sono finito nello stomaco della casa!”

Redpath fu salvato dai gemiti che uscivano dalla sua bocca, da quei suoni di una paura estrema, viscerale, incontrollabile. Si svegliò. Si trovò a faccia in giù sul letto, semiasfissiato dal suo stesso respiro. Stava agitando braccia e gambe, come se nuotasse. La stanza era calda, luminosissima, inondata dalla luce del sole.

Si era trattato solo di un incubo, certo, ma come mai non si sentiva sollevato? In quel momento avrebbe dovuto sentirsi felice del contatto con la realtà, avrebbe dovuto capire che persone come Stan Laurel, Albert Schweitzer e Richmal Crompton occupavano il posto che loro spettava nel pantheon umano, debitamente vistato dalle autorità competenti, e che quindi il mondo era perfettamente in ordine. Però il fardello della paura era ancora lì, si era solo spostato di qualche metro…

“Leila! Ho ucciso Leila! Non sono l’uomo che credevo di essere. Sono un assassino!”

Redpath gemette di nuovo, sottovoce; poi si spostò verso l’orlo del letto e restò seduto, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani. In quella posizione riusciva a vedere la stanza attraverso le dita, e i suoi occhi si posarono su un pezzetto di tappeto blu ai piedi del letto. Lo fissò per una ventina di secondi prima di accettare l’idea che fosse davvero un tappeto blu, e non il linoleum rosa che copriva il pavimento poco tempo prima, quando si era coricato.

“Ma che diavolo…?”

Redpath alzò gli occhi e guardò la stanza. Sempre più sorpreso, scoprì che era tutto diverso. Al posto del vecchio armadio che ricordava c’era un armadio a muro, e gli altri mobili, più moderni, erano tutti bianchi e di stile uniforme. Il lampadario che pendeva dal soffitto era stato sostituito da un gigantesco tubo al neon. Ma il cambiamento più straordinario riguardava l’illuminazione che entrava da fuori. Dalla finestra filtrava la luce del mattino; e quando lui si era messo a dormire, era già pomeriggio avanzato.

Redpath capì cosa doveva essergli successo, e si sentì terribilmente depresso. Nell’altra esistenza, a colazione si era dimenticato di prendere la dose quotidiana di Epanutin, e quindi si era esposto al rischio di un attacco. Gli avvenimenti accaduti in seguito non rispondevano certo all’esigenza di una vita calma, tranquilla, che i medici raccomandavano per il controllo dell’epilessia. Date le circostanze, era naturale che il filo degli eventi gli sembrasse interrotto, che si svegliasse in un ambiente sconosciuto. Gli era già successo, e avrebbe continuato a succedergli se dimenticava di…

Le domande nacquero all’improvviso nel suo cervello, lo colpirono con tutta la loro forza.