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I nostri marinai ascoltavano colle bocche aperte. L’atteggiamento di Rovic era riservato, ma egli si mordicchiava incessantemente i mustacchi. Guzan, che conosceva già tutta la storia, diventava sempre più scostante nei modi. Era evidente quanto egli avesse in uggia i nostri rapporti con Val Nira e la facilità con cui afferravamo i concetti che quegli ci andava esponendo.

Noi infatti veniamo da una nazione che ha sempre incoraggiato la filosofia naturale e il progresso di ogni arte meccanica. Io stesso, nella mia breve vita, sono stato testimone, in zone povere di corsi d’acqua, dell’impianto dei moderni mulini a vento. L’orologio a pendolo fu inventato l’anno prima che io nascessi e ho letto molte descrizioni di macchine volanti con le quali non pochi uomini han cercato di spiccare il volo. Vivendo al passo con un tal vertiginoso progresso, noi montaliriani eravamo ben preparati ad accettare concetti ancora più vasti.

A notte, seduto insieme con Froad ed Etien attorno al fuoco del campo, parlai un poco di questo al saggio: — Ah — sospirò — oggi la Verità è stata davanti a me senza veli. Hai udito ciò che l’uomo delle stelle ha detto? Le tre leggi del moto planetario in un sistema solare e l’unica grande legge dell’attrazione che le spiega? Per tutti i santi, quella legge può esser concepita in una sola breve definizione, e tuttavia i suoi sviluppi terrebbero occupati i matematici per trecento anni!

Fissò il fuoco, e gli altri fuochi tutt’attorno, dove gli uomini dormivano al caldo, e l’oscurità della foresta, e il corrucciato bagliore del vulcano nel cielo. Io presi a fargli domande, ma Etien brontolò: — Piantala, ragazzo, non sai vedere quando un uomo sogna?

Io mi spostai, avvicinandomi al nostromo e gli chiesi: — Che cosa pensi di tutto questo? — Parlai a bassa voce, perché la foresta sussurrava e scricchiolava da ogni parte. — Per me, ho finito da un pezzo di pensare, io — rispose. — Dopo quel giorno sul ponte, quando il comandante ci costrinse a navigare con lui anche se avessimo dovuto raggiunger l’orlo del mondo e cadere di sotto fra le stelle… be’, sono un povero marinaio, io, e l’unica speranza che ho di tornare a casa è di seguire il comandante.

— Anche oltre il cielo?

— Meno rischi, forse, che a navigare il mondo. Quell’ometto ha raccontato che la sua Nave è sicura e che non ci sono tempeste, fra le stelle.

— E tu credi alla sua parola?

— Oh, sì. Anche un vecchio marinaio suonato come me ha visto abbastanza gente da capire quando uno è troppo timido e ha troppo bisogno d’aiuto per raccontare delle frottole. Non ho paura della gente del Paradiso, e nemmeno il capitano ne ha… Tranne che in qualche modo… — Etien si soffregò la guancia barbuta con una smorfia. — In qualche modo, io non capisco, quella gente fa paura a Rovic. Non ha paura che mettano il mondo a ferro e a fuoco… ma c’è qualcos’altro in quelli lì che lo preoccupa.

Sentii il terreno tremare, anche se leggermente. Ulas si era schiarito la voce. — Pare che stiamo stuzzicando la collera di Dio…

— No, non è questo che rimescola le idee al comandante. Non è mai stato troppo religioso. — Etien si grattò, sbadigliò sonoramente e si alzò in piedi. — Mi piace, di non essere il capitano. Lascia che pensi lui che cosa è meglio fare. E ora che tu e io ci facciamo un bel sonno.

Ma io dormii poco, quella notte.

Rovic invece riposò perfettamente: almeno credo, perché in realtà al sorgere del nuovo giorno vidi in lui una tesa stanchezza, e me ne chiesi la ragione. Pensava forse che gli hisagaziani ci sarebbero balzati addosso? I miei timori sparirono però per mancanza di fiato, perché il pendìo s’era fatto tanto ripido che il trascinarsi dietro la carretta era compito penosissimo.

Ma dimenticai la mia stanchezza quando raggiungemmo la Nave, verso sera. Dopo una salva di esclamazioni stupite, i nostri marinai restarono silenziosi, appoggiati alle loro alabarde; gli hisagaziani invece, che sono di poche parole, si prostrarono in segno di reverente timore: solo Guzan, fra loro, restò all’impiedi, e io colsi la sua espressione mentre egli fissava quella meraviglia. Era uno sguardo carico di bramosia.

Il luogo era selvaggio. Eravamo saliti oltre il limite della vegetazione e il declivio sotto di noi era un mare verde che si stemperava nell’argento dell’oceano. Ci trovavamo tra macigni neri rotolati, ceneri e tufo spugnoso. Il dosso della montagna saliva per balze, scarpate e valloni fino alle nevi e al fumo che saliva per un altro miglio nel cielo pallido e gelido.

Ed ecco la Nave, splendida.

Ricordo. In lunghezza, o piuttosto altezza, dato che era posata sulla sua coda, misurava più o meno come la nostra caravella; non dissimile nella forma dalla punta di una lancia, e dipinta d’un bianco che splendeva incorrotto dopo quarant’anni. Tutto qui, lor signori, ma le parole sono ingannatrici: che cosa possono dire di quelle curve nitide e sfuggenti, dell’iridescenza del metallo brunito, di quella cosa stupenda e gagliarda, in fremente attesa di partire? Come posso riportare qui il fascino che avvolgeva quella nave la cui chiglia aveva solcato la luce delle stelle?

Restammo immobili a lungo. La vista mi si annebbiò e mi asciugai gli occhi, adirato per essermi fatto vedere in quell’attitudine, ma poi vidi una lacrima brillare nella barba di Rovic. Il volto del capitano era assolutamente vuoto. Quando parlò, fu solo per dire, con voce atona: — Avanti, preparate il campo.

I guardiani hisagaziani non osarono avvicinarsi a meno di diverse centinaia di passi, tanto la Nave era divenuta un potente idolo per loro, e i nostri marinai furono contenti di fare altrettanto. Ma dopo il calar delle tenebre, quando ogni cosa fu in ordine, Val Nira condusse Rovic, Froad, Guzan e me al vascello.

Mentre ci avvicinavamo, una doppia porta si aperse nel fianco e ne uscì una passerella. Rilucente sotto la luce di Tambur e nel rosso cupo riflesso dalle nubi di fumo, la Nave era già per me la cosa più strana che mi aspettassi: quando poi la porta si aprì davanti a me, come se un fantasma fosse di guardia, ebbi un gemito e fuggii. Le ceneri si levarono tra i miei stivali e colsi uno sbuffo di aria solforosa.

Ma una volta in fondo al campo mi ripresi abbastanza da tornare a guardare. Il terreno scuro assorbiva tutta la luce e la Nave appariva sola con la sua grandezza. Così tornai indietro.

L’interno era illuminato da pannelli freddi al tocco. Val Nira spiegò che il motore principale che muoveva la Nave, come uno gnomo alla macina d’un mulino, era intatto e che al tocco di una leva avrebbe fornito potenza. Per quanto potei capire quel che disse, questo si otteneva trasformando il componente metallico del sale comune in luce… così non ho capito nulla. L’argento vivo era richiesto per una parte dei comandi, che incanalavano la potenza del motore a un altro congegno che spingeva nel cielo la Nave. Ispezionammo il contenitore vuoto: la violenza dell’urto doveva essere stata davvero enorme, per piegare e torcere a quel modo quella spessa lega.