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Carol O'Connell

Il Volo Dell'angelo Di Pietra

Flight Of The Stone Angel, 1997

Per Nick Downing

Prologo

Nella mente dell'idiota, una nuvola non era una semplice nuvola. Sempre a caccia di meraviglie, leggeva nuovi significati in ogni mutamento di forma. Quella nuvola, in particolare, non era sospinta dalla pur minima traccia di vento. Bloccata nel movimento in avanti, si gonfiava verso l'alto in una esplosione di lunghi pennacchi rabbiosi. Verdi lampi di luce gassosa si sprigionavano dal suo cuore, riverberando sulla piazza del paese. Si udì un brontolio, preludio del temporale. Poi fu buio profondo, come su un palcoscenico.

Stava arrivando, stava sicuramente arrivando.

Dall'elettricità presente nell'aria l'idiota sapeva che presto un fulmine avrebbe colpito la terra. Fu percorso da un brivido. In attesa del fulmine provò una piacevole, insostenibile tensione. E la nuvola lo fece aspettare.

Incombeva sulla sua testa, sempre più alta e cupa, mentre lui contava i secondi. Uno, due…

La giovane forestiera arrivò in città appena dopo mezzogiorno.

Di lì a un'ora, l'idiota sarebbe stato aggredito, le mani fratturate grondanti sangue; il vicesceriffo Travis avrebbe avuto un infarto al volante della sua auto; e Babe Laurie sarebbe stato trovato ucciso.

Adesso la straniera era rinchiusa in una cella della prigione.

Lo sceriffo Jessop preparò una ricevuta con l'elenco – insolitamente breve, per una donna – dei suoi effetti personali: una pistola 357 Smith & Wesson e un vecchio orologio da tasca. Vi erano incisi i nomi dei proprietari che se l'erano tramandato: David Rubin Markowitz, Jonathan Rupert Markowitz, Louis Simon Markowitz e, per ultimo, Mallory, solo Mallory.

1

Aveva finalmente smesso di piovere e il cielo era tutto un vorticare d'ali. I falchi pescatori stridevano tuffandosi in cerca di cibo e la donna si chiese se i pesci li sentissero arrivare.

Un falco lasciò cadere il pesce sull'erba. Era così intento a dilaniare la preda che non badò alla donna che si avvicinava, sorridendo compiaciuta.

La signorina Augusta Trebec era certa che, se si fosse reincarnata, sarebbe tornata sulla terra coperta da un bel manto piumato. Dio non sprecava talenti e lei aveva tutte le caratteristiche di uno spietato uccello predatore.

La brezza che proveniva dal fiume le incollava il vestito alle gambe nude. Anche da lontano, gli abitanti di Dayborn avrebbero riconosciuto all'istante la figura alta e slanciata che percorreva a grandi passi l'argine artificiale del Mississippi.

Un improvviso spiraglio di luce attraverso le nuvole fece brillare la massa bianca dei suoi capelli, evidenziando le rare ciocche ancora nere. Augusta trasalì per una fitta alla spalla e spostò la borsa della spesa sul fianco opposto, mentre affrontava la ripida discesa di terriccio.

Raggiunto il piano, procedette più lenta verso la sua casa, quasi nascosta tra gli alberi. Attraverso il fitto fogliame poteva scorgerne una finestra, scura e rotonda come un occhio.

La casa aveva quarantasette stanze ed era in piedi da quasi un secolo e mezzo. Lei si augurava che andasse presto in rovina, sbriciolandosi in una nuvola di polvere. Per questo aveva trascurato totalmente la manutenzione nei cinquant'anni trascorsi dalla morte di suo padre.

Sostò davanti al cottage di Henry Roth, una casetta di mattoni rossi dal tetto di ardesia. Il giardino risplendeva di fiori esotici disposti in sgargianti fasce ondulate. Le era sempre piaciuta quella casa, per la struttura semplice e l'utilizzo razionale dello spazio. Se fosse stata sua, avrebbe lasciato che nel giardino crescessero spontanei i fiori di campo. Ma Henry era un artista e non poteva fare a meno di perfezionare la natura.

C'era uno sconosciuto sulla soglia del cottage, e nel vialetto d'accesso era parcheggiata una macchina grigia. Sebbene Augusta non si intendesse di automobili, riconobbe il simbolo della Mercedes sul cofano. La targa era nascosta dai cespugli e con essa la provenienza del veicolo e del suo proprietario.

Il visitatore di Henry era alto, ben oltre il metro e ottanta, un pezzo d'uomo, visto di spalle. Mentre si allontanava dalla porta, Augusta ne ammirò il profilo: il naso era un vero spettacolo, formidabile, quasi un'arma per importanza e lunghezza.

L'uomo si girò e le fu di fronte. Aveva occhi grandi orlati da palpebre pesanti e piccole iridi blu. Pareva il rospo della favola, che, dopo il bacio di una bella fanciulla, non avesse ben completato la trasformazione in principe.

Augusta gli andò incontro lungo il vialetto. Lo sconosciuto le rivolse un rispettoso cenno del capo, la versione moderna di un inchino da gentiluomo.

Non era giovanissimo, ma non c'erano fili grigi tra i capelli castani che potessero aiutarla a stabilire quanti anni avesse. Gli era abbastanza vicina da notare il tessuto del suo abito con gilet, e dallo spessore della stoffa giudicò che venisse dal Nord, da un autunno più freddo.

«Salve» fece lui, con un sorriso strano e seducente.

Augusta ricambiò istintivamente il sorriso, ma non appena se ne rese conto richiuse le labbra in un'espressione più dignitosa e meno compromettente. «Henry non sarà di ritorno da New Orleans prima di sera.»

«Grazie, ripasserò più tardi.» Le porse un biglietto da visita.

La formalità di quel gesto la conquistò.

Lui indicò la borsa della spesa. «Posso darle una mano?»

A quel che pareva era di buona famiglia, o quantomeno era stato educato come si deve. Dall'accento si sarebbe detto originario della zona nord-orientale del paese. Augusta gli piazzò fra le braccia la spesa, e l'uomo parve stupirsi nel constatarne il peso notevole. Lei sorrise: nella vita aveva portato pesi ben maggiori. Il suo abito di cotone leggero nascondeva un corpo in ottima forma, allenato a camminare e a sopportare la fatica.

Studiò il biglietto: «Charles Butler, consulente». E di seguito una serie impressionante di titoli accademici.

Il signor Butler le spiegò di aver perso le tracce di un'amica carissima. «Forse lei l'ha vista.» Frugò nella tasca interna della giacca e le allungò una pagina di giornale ripiegata.

Augusta spiegò il foglio e si trovò sotto gli occhi la foto un po' sgranata di un angelo di pietra. Era una pagina del «Louisiana Herald» della domenica precedente, parte di un servizio sui giardini famosi lungo la River Road. La didascalia citava l'autore della scultura: Henry Roth, di Dayborn.

«Quella statua è stata commissionata all'artista cinque mesi fa» disse l'uomo. «Somiglia talmente alla mia amica che credo abbia posato per lui.» Estrasse dal portafoglio la foto di una giovane donna con capelli biondi e occhi verdi.

«È stata qui. Io la conoscevo.» Augusta ripiegò la pagina di giornale e gliela restituì. «Ora non c'è più. È morta all'improvviso.»

Nel silenzio che seguì, osservò lo sguardo dell'uomo affollarsi di domande. Lo aveva turbato in modo grave e deliberato, tanto da renderlo incapace di parlare.

«Può lasciare qui la macchina.» Si voltò e, dirigendosi verso la strada, gli fece cenno di seguirla. «La mia casa è a due passi, appena attraversato il cimitero.»

Lui le andò dietro lento, muovendosi meccanicamente lungo il sentiero fino a raggiungere uno spiazzo coronato da un cerchio d'alberi e costellato di piccole casette, ognuna riservata a un defunto. I tetti delle tombe erano sormontati da croci di pietra o crocefissi in ferro. Le sepolture più modeste erano sigillate da lastre di cemento.

Qua e là occhieggiavano mazzi scoloriti di fiori appassiti. Erano lì dal giorno di Ognissanti, lo stesso giorno in cui era arrivata la forestiera e Babe Laurie aveva abbandonato con violenza questo mondo, lasciando una brutta macchia rossa sul ciglio della strada.

Lo scricchiolio delle scarpe sulla ghiaia era coperto dall'incessante canto degli uccelli. Augusta decise che il silenzio attonito di Charles Butler era indice di sincerità. Sembrava proprio che avesse detto la verità: era un uomo in cerca di un'amica, evidentemente molto amata.