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— Non sentii dolore — confermai — però il suo intervento mi salvò.

— Forse perché ci sono dei limiti a quello che i Martin possono fare. Lei era molto lontano da casa Oakham, e uno shock tanto violento…

— E non è invece possibile che l’incantesimo si sia rotto da so­lo? — chiesi. — Che lo sceriffo non c’entri per niente?

— È possibile — disse Bobby Jackson. — Ma è un particolare di secondaria importanza. Quello che conta è che il trasferimento sia stato annullato. E questo prova che distruggerla non era così facile come i Martin avevano sperato.

— Secondo te, il trasferimento non era fisico — dissi, perples­so. — Però lo sceriffo Anderson ha le braccia graffiate, e questa è la prova che un gatto “umanoide” l’ha assalito.

— Ovviamente il trasferimento era fisico fino a quel punto — rispose Bobby. — Ma non in modo tale da farle sentire dolore se le si faceva del male, mentre il trasferimento faceva sì che lei ve­desse e sentisse attraverso gli occhi e le orecchie di un gatto, e la faceva muovere come se fosse davvero diventato un gatto.

— Ero io che facevo muovere le gambe del gatto?

— Sì. Tuttavia sono convinto che il trasferimento fosse in mas­sima parte mentale. Non è una definizione molto buona, ma con­fonde meno le idee che dire “psichico”. Il fenomeno è tanto in­consueto e così estraneo all’esperienza normale. È molto difficile stabilire fino a che punto “fisico” il “gatto” occupava il suo cor­po; oppure fino a quale stadio di trasformazione mentale lei fosse quando guardava il mondo con gli occhi di un gatto. Il gatto sentì dolore quando lo sceriffo lo prese a calci. Ma la sua mente non sentì dolore. Quando la cosa accadde a me, per un attimo ebbi la sensazione di provare, almeno fino a un certo punto, i pensieri e le emozioni di un gatto. Forse il trasferimento non è stabile e non è mai completo. Deve subire variazioni di qualità e d’intensità da un momento all’altro.

— Io so solo che fu un’esperienza agghiacciante — replicai. — Non vorrei che mi capitasse ancora.

— Farò del mio meglio perché non avvenga — disse Bobby. Lo fissai incerto se dirgli quel che pensavo nel timore di offen­derlo.

— Lo so — disse Bobby con un sorriso di comprensione. — Cosa può mai fare un ragazzo della mia età? È questo che pensa?

Lo guardai senza parlare.

— E naturale che pensi così — continuò, senza più sorridere. — Ma mi ha dato una chiave capace, forse, di aprire una porta molto oscura e nascosta. Quando il signor Martin — sono certo che la voce che lei sentì era la sua — gridò: “Dobbiamo raggiun­gere la caverna prima che sia troppo tardi”, sono sicuro che lei ha capito a quale caverna si riferisse.

— Certo — risposi. — Gower Cavern.

— Non è un’unica caverna, ma una serie di antri collegati fra loro, con una superficie totale di quasi un miglio quadrato. Non ci sono altre caverne, nei pressi di Lakeview, né grandi né picco­le. Quindi il campo si restringe molto.

— Non occorre che tu me lo dica — osservai. — Sono nato a Lakeview, e anche mio nonno era di qui.

— Lo immaginavo, ma non ero sicuro. Mi dica… ci è mai an­dato?

Feci un cenno di diniego. — Sembra che siano pochi quelli che vanno a visitare la Gower Cavern. Chissà perché.

— E non le è venuta la voglia, nemmeno da bambino?

— No, mai.

— Io invece ci sono andato spesso. Ma non in questi ultimi anni.

Dopo di che non dicemmo nient’altro d’importante.

Lo accompagnai giù, fino alla porta, senza sapere bene cosa dovevo dirgli al momento di separarci. “Vieni a trovarmi ancora, qualche volta” mi sembrava troppo banale, data la gravità dei fatti di cui avevamo parlato.

Fu lui a risolvere il problema, dicendo semplicemente: — Ad­dio, signor Bellamy. Quello che mi ha detto mi è stato di grande aiuto. Ci terremo in contatto.

Non appena la porta si fu chiusa dietro di lui, risalii in studio e tornai a sedermi vicino alla finestra. Avevo molte e serie doman­de da pormi.

Bobby Jackson aveva detto una cosa che non riuscivo a toglier­mi di mente. Ne aveva accennato una sola volta nel corso del no­stro colloquio, ed era stato riluttante a soffermarcisi sopra. Ma tutt’e due sapevamo che era la cosa più importante tra tutte quel­le di cui avevamo parlato. Perfino le terrificanti supposizioni cir­ca quello che mi era accaduto, dopo essere uscito da casa Oakham, rivestivano un’importanza relativa in rapporto all’oscuro nocciolo del mistero, che era molto più profondo.

“Io sono convinto” aveva dichiarato il ragazzo “che i Martin non sono affatto esseri umani”.

Quando sentii queste parole lo fissai aspettando che si spiegas­se meglio, cosa che ero certo avrebbe fatto se io non avessi detto niente.

Le mie speranze non furono deluse. “Sono convinto che siano solo… corpi” disse. “Forse non sono nemmeno fatti di carne e di sangue, ma di questo non sono sicuro. Corpi a cui è stato conferi­to il potere di pensare e sentire, in modo completamente innatu­rale”.

Io continuai a tacere, e lui cambiò discorso, in un modo che mi risultò anch’esso misterioso. So solo che non mi riuscì di chieder­gli cosa intendesse dire con quel “innaturale”. E sì che ci tenevo a saperlo. Comunque, lo strano blocco mentale che lui era riusci­to, chissà come, a impormi, era scomparso, e io cominciai a pensare in modo serio alla parte che uomini e donne artificiali, morti viventi e Frankenstein, occupano nel pensiero umano.

Questo è uno dei grandi, misteriosi enigmi che non sono mai stati esplorati in profondità, nonostante tutto quello che si è scrit­to sull’incognito nel campo dei racconti fantastici.

Per esempio: perché ci attira e ci turba così morbosamente lo spettacolo di un cadavere che cammina, o di qualche orrore ana­tomico dai piedi deformi, il cui cervello paradossalmente sia in­capace di pensare ma, nello stesso tempo, malevolo? Perché dobbiamo essere tanto spaventati quanto attratti al punto da fis­sare avidamente e a lungo uno spettacolo, sia sulla scena sia sullo schermo, che dovrebbe farci fuggire inorriditi e indurci a tutto pur di dimenticarlo?

Che cosa succede ai meccanismi di difesa che chiamiamo in nostro aiuto quando vogliamo dimenticare le più insostenibili esperienze fatte da svegli al di fuori del mondo dello spettacolo e delle pagine dei libri… qualcuno intrappolato in un edificio in fiamme senza possibilità di scampo, un paralitico che esala l’ul­timo respiro nella corsia di un ospedale, un mendicante cieco, carico d’anni che cammina a fatica in mezzo a un’allegra folla di festaioli?

È perché esiste, sepolto nelle profondità della nostra mente, un “quid” imprigionato che sa cosa significa essere morti o non avere più speranza di scampo ed è perciò capace di identificarsi con i mostri da incubo e con le creature che rivivono dopo essere uscite dalla tomba?

Forse, in un certo senso, noi facciamo esperimenti di laborato­rio su noi stessi; forse recitiamo inconsciamente alla Boris Karloff, stesi in preda a narcosi su un lettino, e con il copione sepolto nella profondità del nostro animo, lentamente e orribilmente ci ridestiamo alla vita mentre i lampi saettano tutt’intorno a noi?

Perché, quando abbiamo letto Giro di vite di Henry James, torniamo più e più volte a rileggerlo, quasi potessimo vedere quel “quid” sepolto rispecchiarsi mostruosamente nella ragnatela di tenebra che lentamente e inesorabilmente si avvolge intorno ai due bambini terrorizzati?

Non potrebbe darsi che le storie di vampiri e di lupi mannari provochino la stessa specie di fascino ipnotico, malevolo come lo sguardo dei serpenti, perché la trasformazione dell’uomo in be­stia fa scattare in fondo alla nostra mente un meccanismo simile?