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Sapevo che se mi fossi voltato verso il signor Dyson per chie­dergli: “Chi è Laura Hartley?”, lui mi avrebbe fissato con aria stupita e ignara. Ero stato costretto ad agire così — tanto per il suo bene quanto per il mio — e mi era bastato un minuto per im­porre un blocco alla sua memoria.

Altrimenti sarebbe stato così preoccupato e mi avrebbe subis­sato di tante domande da minacciare la calma che io cercavo di mantenere con tutte le mie forze. Non poteva fargli alcun male convincerlo — e io gli avevo inculcato questo convincimento — che gli avevo chiesto di accompagnarmi perché avevo scoperto per caso nella parte più interna della caverna, una strana formazione geologica, e dovevo subito discuterne con lui, dopo avergliela mostrata, affinché si persuadesse da solo di quanto fosse straor­dinaria.

Gli avevo anche fatto credere che quella scoperta era in rap­porto con la questione dei dischi volanti, di cui avevamo parlato in classe al principio della settimana, perché sapevo che così sa­rebbe stato sempre attento e in guardia.

Non sapevo se avrei avuto bisogno o no del suo aiuto. Ma in caso positivo, la sua impossibilità di ricordare quel che gli avevo detto al telefono non avrebbe avuto alcun peso. Se avevo sbaglia­to nel chiedergli di venire con me, lo avrei saputo presto. Ma non credevo di aver sbagliato. Affrontare da soli un pericolo molto grave è sempre un errore, a meno di sapere di poter contare su un eventuale aiuto. Anche se i risultati sono disastrosi non signi­fica che la decisione iniziale fosse sbagliata. Significa soltanto che circostanze indipendenti dalla nostra volontà hanno preso una piega imprevista.

Sapevo che avrei dovuto combattere da solo la battaglia decisi­va, e se la mia fermezza avesse vacillato, sia pure per un attimo, non avrei avuto speranze di salvezza. Ma sapevo altresì che quanto mi aspettavo d’incontrare in fondo a un grande insieme di caverne, dove sfociava tutto il sistema di gallerie e diramazioni, era certamente troppo complesso per affrontarlo senza aiuto. Quando si batte a una porta buia e ben sorvegliata ed essa si apre silenziosamente su una oscurità ancora più terribile, è bene avere vicino qualcuno di cui ci si fidi appieno e il cui coraggio, almeno, è ancora integro.

Sapevo che fra non molto ci saremmo trovati immersi nel buio assoluto se non avessimo acceso le lampade portatili. Io ne avevo portate due, e ne avevo data una al signor Dyson.

Per ora, comunque, arrivava ancora abbastanza luce dall’im­bocco, e l’unico ostacolo era costituito dai ciottoli sparsi sul fon­do della caverna e da alcune lastre piatte a livello del terreno.

Negli otto o dieci minuti trascorsi da quando avevo fatto sì che lui non potesse ricordare Laura Hartley inserendo nella sua men­te un’altra ragione per la nostra visita alla caverna, il signor Dy­son non aveva detto una parola.

Sembrava affascinato dall’ampiezza, che andava aumentando, di quel mondo sotterraneo, e dal gioco di luci e ombre sulle pare­ti, al punto da scordare, per un momento, non solo l’agitazione e l’ansia che io l’avevo costretto a bandire dalla mente, ma anche la straordinaria scoperta che avevo inventato. Non dimostrava alcuna fretta di arrivare a quell’inesistente struttura rocciosa che, se non fosse stata inventata di sana pianta, avrebbe riportato in primo piano l’argomento degli Oggetti Volanti Non Identificati, della cui esistenza io avrei portato prove inconfutabili.

Ma il signor Dyson è fatto così. Non voglio dire che pensa a bi­nario unico, ma qualche volta, quando i suoi pensieri viaggiano a rotta di collo su un binario, non è capace di farli deviare su un al­tro senza provocare un deragliamento. Ignora le segnalazioni, i semafori, i frenetici gesti degli addetti agli scambi, e procede a gran velocità verso il disastro. E qualche volta il pericolo è grave. Ma chi ero io per notare le crepe dell’armatura di un uomo così singolare? Lui se ne stava chiuso quasi sempre in quell’armatura, e probabilmente sarebbe uscito incolume da una caduta di trenta metri se, cadendo, avesse pensato con fermezza e decisione a quel che gli stava capitando. Ho pensato spesso che se qualcuno gli avesse detto che Lakeview era in preda alle fiamme mentre lui stava correggendo un componimento che gl’interessava in modo particolare, avrebbe continuato nel suo lavoro finché le pareti della classe non fossero crollate.

In quel momento stava guardando il soffitto della caverna, come se le rocce affioranti lo facessero pensare alle stalattiti, oppu­re che lassù dovevano esserci dei pipistrelli. Ma io sapevo che nella caverna non c’erano né pipistrelli né stalattiti.

Del resto, la Gower Cavern non ha bisogno di essere infestata dai pipistrelli per dare a chi vi penetra la sensazione di essere os­servato da furtive creature che volano o strisciano nel buio. C’e­rano dovunque ombre grottesche e le rocce stesse erano mac­chiate e striate e parevano fuse.

A me sembrava di trovarmi all’interno di un’enorme meteorite cava che si fosse schiantata sulla valle quando la Terra era giova­ne; una meteorite che affondava sempre più nel terreno col pas­sare dei millenni, e che forse un giorno sarebbe sparita.

Mi accorsi d’un tratto che il signor Dyson si era fermato, e mi stava tirando per un braccio. — E meglio che non andiamo oltre senza accendere le lampadine — disse. — Qui davanti c’è una svolta brusca e sicuramente poi ci troveremo nel buio completo.

— D’accordo, accenda la pila — gli dissi. — Non c’è nessun motivo per continuare a inciampare nei sassi.

— Non c’è nessun motivo? — ripeté lui, e mi stupì il suo tono preoccupato. — Ho la sensazione che tu mi nasconda qualcosa. Non me ne intendo per niente di geologia, e anche se abbiamo parlato di dischi volanti qualche giorno fa non capisco perché tu abbia dovuto telefonarmi insistendo per farmi venire qui subito. Potevo aspettare fino a domani. La domenica è la giornata mi­gliore per esplorare una caverna come questa, specie dopo che si è avuto una settimana molto pesante a scuola. Ci vuole un po’ perché le ragnatele della fatica si diradino; questa, inoltre, è una giornata molto pesante. È tutta mattina che il cielo si va rannuvo­lando. Mi sembra che una bella giornata di sole dovrebbe sem­brarti più adatta dopo quello che è successo martedì a scuola.

Dunque si ricordava della mia telefonata, anche se ero riuscito a fargli dimenticare che l’avevo chiamato per parlargli di Laura Hartley!

— È difficile aspettare quando c’è in ballo una cosa molto im­portante, signor Dyson — gli dissi. — Inoltre, secondo il bolletti­no meteorologico, domani pioverà tutto il giorno.

— Ti sei preso la briga di informarti sul tempo, Bobby? Be’, se per te è una cosa tanto importante, sarà meglio che ti segua senza più brontolare. Però continuo ad avere la strana sensazione che tu mi nasconda qualcosa. È vero?

— No di certo, signor Dyson. Perché dovrei farlo?

— Forse per averla vinta, Bobby. Anche una roccia strana può… be’, essere truccata. La togli da un posto, la metti in un al­tro…

“Oh, qual rete intricata tessiamo, se sulla via del mentir ci inol­triamo”. Era un’asserzione ovvia e sciocca, o il poeta che l’aveva scritta aveva infisso una pietra nella eterna via della saggezza? Ormai giaceva nella tomba fin dal diciottesimo secolo, e non po­tevo andare a chiederglielo, viaggiando a ritroso nel tempo.

E poi dovevo esplorare davanti a me, nelle viscere della caver­na dove quel genere di saggezza, o di mancanza di saggezza, non aveva la minima importanza. Quando ci si accinge a ingannare un’intelligenza fredda e sconosciuta che progetta di conquistare la Terra senza commettere il minimo errore, si procede sull’orlo di un abisso in fondo al quale c’è la morte, e allora la rete che si è costretti a tessere è molto, molto intricata.

Sembrava che il signor Dyson si fosse subito pentito di avermi accusato di “truccare” le rocce, perché mi diede una pacca sulla spalla e continuammo a camminare in silenzio.