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Mezzo secolo prima, il terreno argilloso era stato arato e coltivato, i vigneti erano spuntati e la Malaga Processing Corporation aveva fatto arrivare lavoratori a centinaia, dalla vecchia Italia. Le comunità si erano sviluppate, erano sorte le fattorie, e tutti gli abitanti della zona avevano formato una colonia italiana molto unita.

Quando le viti furono distrutte quasi interamente da una forma parassitaria, gli stretti legami etnici e culturali si ruppero tutti d'un tratto. Alcuni, come Lucas senior, lasciarono le fattorie costruite dai loro padri e si diressero verso le comunità italiane delle altre città. Il loro posto fu preso da lavoratori provenienti da diverse parti del mondo. E anche i nuovi venuti erano agricoltori, per nascita e tradizione. In pochi anni le piccole comunità diventarono di nuovo prospere, per lo meno ragionevolmente: prospere, e si sistemarono in un nuovo disegno di usi e costumi che somigliava molto a quello antico. Ma il mondo esterno aveva raggiunto le piccole città come Milano, e a sua volta Milano aveva mandato alcuni dei suoi figli nel mondo esterno.

Le estati erano calde e gli inverni miti, nella zona. Le fattorie esterne si trovavano tra pinete e macchie di vegetazione, e i cervi entravano nelle aie durante l'inverno. Non c'erano molte automobili, per le strade. A poche miglia dalla zona si trovava una fabbrica di conserve alimentari e la fattoria di Matteo Martino era quasi interamente dedicata alla coltivazione dei pomodori. A parte i necessari viaggi di rifornimento, Matteo Martino non si spingeva mai molto lontano dalla sua fattoria.

Il giovane Lucas aveva ereditato la corporatura robusta e il torace sviluppato dagli antenati di Matteo, originari dell'Italia settentrionale. Aveva gli occhi castani, ma i capelli erano molto chiari, quasi biondi. Suo padre soleva scompigliargli i capelli con una carezza, chiamandolo “Tedeschino”, provocando le deboli reazioni della moglie. La famiglia viveva nella fattoria, che aveva quattro stanze, e, crescendo, Lucas prese dimestichezza con il lavoro. Erano tre persone, con responsabilità diverse ma interdipendenti, come doveva essere, se si desiderava ottenere un risultato buono. Serafina accudiva ai lavori domestici e aiutava durante il raccolto, Matteo svolgeva il lavoro più pesante, e Lucas che man mano cresceva e si irrobustiva, svolgeva il quotidiano lavoro di manutenzione, necessario al buon procedere delle coltivazioni. Estirpava le erbacce, teneva in ordine e lucidava gli arnesi da lavoro, e Matteo, che prima di venire in America aveva lavorato negli stabilimenti della Fiat, gli insegnava gradualmente a riparare e curare il trattore. Lucas aveva una particolare inclinazione per la meccanica.

Non avendo né fratelli né sorelle, ed essendo troppo occupato per fare lunghi discorsi con i genitori durante la giornata, raggiunse l'adolescenza rimanendo solo, ma senza sentirsi abbandonato. Prima di tutto, a tenerlo occupato c'erano altre cose, oltre alla quotidiana dose di lavoro. Poi, lui ragionava in termini di parti dalla forma determinata e ben precisa, che si univano ad altre parti per creare un meccanismo funzionante e completo. Non avendo da osservare nessun ragazzo della sua età, per studiarne lo sviluppo e il comportamento, imparò a studiare se stesso… distaccare la sua mente dal suo corpo di ragazzo, studiandone i processi ragionativi, catalogando ogni azione, accumulando i dati secondo uno schema caratteristico della sua mente già disciplinata e istintivamente sistematica. Visto dall'esterno, senza dubbio, Lucas aveva l'aspetto di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, serio e pensoso in modo innaturale.

Le scuole elementari, che aveva frequentato vicino a casa sua, non gli servirono per formare amicizie esterne. Ritornava sempre a casa, all'ora di pranzo e subito dopo la fine delle lezioni, perché c'era sempre del lavoro da svolgere, e perché lui preferiva così. I voti ottenuti furono tutti ottimi, meno che in inglese; lo parlava correntemente, ma non tanto spesso e tanto a lungo da fargli provare interesse per la sua struttura grammaticale. Comunque, se la cavò abbastanza bene, e a tredici anni si iscrisse alla scuola superiore di Bridgetown, a dodici miglia di strada di distanza, che lui percorreva in autobus.

Ventiquattro miglia in autobus ogni giorno, in compagnia di altre venti persone della stessa età… persone che si chiamavano Morgan, Crosby, Muller, Kovacs e Jones, oltre a quelle che si chiamavano Del Bello e Scarpa… potevano cambiare diverse cose. In particolare, per un ragazzo silenzioso e autosufficiente, dagli occhi perennemente indagatori. Le difficoltà grammaticali scomparvero in poco tempo. Morgan gli insegnò a fumare. Kovacs gli parlò della musica, e con Del Bello si occupò di rugby. Ma soprattutto, in quel primo anno incontrò Edmund Starke, un uomo piccolo, grassoccio e poco socievole, che portava occhiali privi di montatura e insegnava fisica. Ci sarebbe ancora voluto un po' di tempo, un po' di studio e un po' di maturazione. Ma Lucas aveva già intrapreso la sua strada.

CAPITOLO III

Era passata una settimana, dall'arrivo del presunto Lucas Martino. Al telefono, la voce di Deptford suonava stanca e debole. Rogers, che aveva avvertito un fastidioso ronzìo nelle orecchie durante gli ultimi due giorni, dovette fare uno sforzo quasi inumano per distinguere le parole pronunciate dal suo superiore.

«Ho mostrato a Karl Schwenn tutti i rapporti, Shawn, e io ho aggiunto una specie di riassunto. Ha convenuto che sarebbe stato impossibile fare di più.»

«Sì, signore.»

«A suo tempo, anche lui ha svolto questo lavoro. Si rende conto delle difficoltà.»

«Sì, signore.»

«In un certo senso, cose del genere ci succedono ogni giorno. Se questo può consolarci, succedono ai sovietici anche più spesso. Voglio pensare che ci occorra più tempo, qui, per prendere delle decisioni definitive, di quanto ne occorra ai sovietici.»

«Penso di sì.»

La voce di Deptford era stranamente incerta, come se l'uomo stesse cercando delle parole adatte a concludere l'argomento. Ma non era questo il suo scopo, e Deptford riprese dopo una breve pausa.

«£ tutto, allora. Domani potrete congedare gli esperti, e attenderete fino a quando non vi sarà notificata la tattica che intendiamo seguire nei riguardi di Mar… di quell'individuo.»

«Benissimo, signore.»

«Arrivederci, Shawn.»

«Buonanotte, signor Deptford.» Riappese e si stropicciò l'orecchio con il palmo della mano.

Rogers e Finchley sedevano sulla branda, e guardavano l'uomo senza volto che si trovava dall'altra parte della piccola cella, dietro al tavolo sul quale consumava i pasti. Era stato tenuto in quella stanza per quasi tutta la settimana, ed era uscito solo per recarsi nel laboratorio sistemato nella stanza accanto. Aveva degli abiti nuovi. Aveva usato la doccia diverse volte, senza arrugginire.

«Sentite, signor Martino» stava dicendo educatamente l'agente dell'F.B.I. «So che la domanda vi è stata già posta, ma ricordate qualcosa di nuovo, dopo la nostra ultima conversazione?»

L'ultimo tentativo, pensò Rogers. Ci si affida sempre alla fortuna, prima di rinunciare.

Non aveva ancora detto a nessun membro del suo gruppo che ormai erano tutti licenziati. Aveva chiesto a Finchley di scendere con lui perché era sempre meglio essere più di uno, durante un interrogatorio. Se il soggetto avesse dimostrato sintomi di debolezza, si sarebbe potuto svolgere un interrogatorio incrociato, scambiandosi il soggetto come se si fosse trattato di una palla da tennis, e il suo sguardo sarebbe passato da un uomo all'altro, snervandolo sempre più.

No… no, pensò Rogers, all'inferno. Non volevo scendere da solo, ecco tutto.

Le luci si riflettevano sul metallo levigato. Ci vollero un paio di secondi prima che Rogers capisse che l'uomo aveva scosso il capo, rispondendo alla domanda di Finchley.