L’ostacolo era troppo alto per superarlo con un balzo, per cui dovette rischiare. Fortunatamente la corrente era stata tolta. Caquer scavalcò la rete senza intoppi, mentre i suoi inseguitori si fermavano e tornavano indietro per occuparsi dell’uomo caduto accanto all’astronave.
Caquer smise di correre e si mise a camminare, ma continuò senza fermarsi. Non sapeva dove andare, ma sapeva che doveva continuare a muoversi. Dopo un po’ si accorse che i suoi passi lo stavano conducendo verso il limitare della città, sul lato nord, verso Callisto City.
Ma era una follia. Non poteva assolutamente raggiungere Callisto City a piedi in meno di tre giorni. Ammesso sempre che riuscisse anche ad attraversare quel deserto privo di strade. E poi in tre giorni sarebbe stato troppo tardi.
Si trovava in un piccolo parco vicino al confine nord quando si rese conto di quanto fosse futile proseguire in quella direzione. E nello stesso tempo scoprì di avere i muscoli duri e stanchi, oltre a un terribile mal di testa, per cui non gli sarebbe stato possibile proseguire a meno di avere davanti a sé una meta possibile e valida.
Si lasciò cadere su una panchina del parco e per un po’ rimase con la testa stretta tra le mani. Non trovò nessuna risposta.
Dopo un certo tempo sollevò lo sguardo e vide qualcosa che lo affascinò. C’era una girandola in cima a un bastone piantato nell’erba del parco, che girava vorticosamente al vento. Ora forte, ora adagio, a seconda di come tirava il vento.
La girandola ruotava in tondo, come la sua mente. E non poteva andare altrimenti la mente di un uomo quando questi non era più in grado di distinguere la realtà dall’illusione? In tondo come la Ruota di Vargas.
In tondo.
Ma doveva esserci una via d’uscita. Un uomo con la Ruota di Vargas non era completamente invincibile, altrimenti come poteva il consiglio essere riuscito alla fine a distruggere le poche ruote che erano state costruite? È vero che poteva darsi che i possessori delle ruote potevano essersi distrutti a vicenda, almeno fino a un certo punto, ma doveva pure esserci stata un’ultima ruota in mano a qualcuno. In possesso di qualcuno che voleva controllare il destino del sistema solare.
Ma le ruote erano state eliminate.
Quindi voleva dire che si poteva farlo. Ma come? Come si poteva, se non si vedevano? E soprattutto come si poteva farlo, quando bastava che un uomo le vedesse per finire totalmente sotto controllo, a tal punto da non poterla più vedere dopo il primo barlume perché ormai la sua mente era stata completamente catturata?
Doveva eliminare la ruota. Quella era l’unica risposta. Ma come?
Per quanto ne sapesse lui, poteva anche darsi che quella girandola fosse la Ruota di Vargas, messa lì per creare l’illusione che fosse il giocattolo di un bambino. O forse il suo possessore, col casco in testa, stava in quel momento sul sentiero proprio davanti a lui e lo osservava, invisibile, perché alla mente di Caquer era stato ordinato di non vedere.
Ma se l’uomo era lì, lo era veramente, e se Rod si fosse messo a vibrare fendenti con la daga, il pericolo sarebbe scomparso, no? Ma certo.
Ma come trovare una ruota che non poteva vedere? Che non si poteva vedere perché…
E poi, mentre fissava la girandola, Caquer intravide una possibilità, remota, ma che forse poteva funzionare.
Gettò una rapida occhiata all’orologio e vide che erano le nove e trenta, mezz’ora prima della dimostrazione in piazza. E la ruota e il suo possessore sarebbero certo stati lì.
Dimenticando i dolori ai muscoli, il tenente Rod Caquer, prese a correre per tornare verso il centro della città. Le strade erano deserte. Erano tutti andati in piazza, naturalmente. Così era stato loro ordinato di fare.
Dopo qualche isolato si trovò senza fiato e dovette rallentare l’andatura, riducendola a una rapida camminata, ma avrebbe avuto il tempo di arrivare là prima che fosse tutto finito, anche se gli fosse sfuggito l’inizio.
Sì, poteva andare là. E se l’idea funzionava…
Erano quasi le dieci quando passò davanti all’edificio che ospitava il suo ufficio e continuò per la sua strada. Qualche porta più avanti svoltò e entrò in un palazzo. L’uomo dell’ascensore era scomparso ma Caquer azionò lui stesso l’ascensore e un minuto dopo aveva forzato una porta con dei ferri che aveva sempre con sé ed era entrato nel laboratorio di Perry Peters.
Anche Peter non c’era, naturalmente, ma gli occhialoni erano lì, gli occhialoni speciali coi tergilenti da usarsi nelle miniere di radite.
Rod Caquer se li infilò sugli occhi, si infilò in tasca la batteria motrice e toccò il pulsante sul lato dell’apparecchio. Gli occhialoni funzionavano. Riusciva a vedere qualcosa mentre i tergilenti oscillavano avanti e indietro. Ma un minuto dopo si fermarono.
Naturale. Peter l’aveva avvertito che gli alberini di trasmissione si surriscaldavano e si dilatavano dopo un minuto di funzionamento. Be’, forse non avrebbe avuto importanza. Un minuto poteva essere più che sufficiente e ora che avrebbe raggiunto la piazza, il metallo si sarebbe raffreddato.
Ma doveva riuscire a variare la velocità. Fortunatamente tra le varie cose che ingombravano il banco di lavoro riuscì a trovare un piccolo reostato che collegò con del nastro adesivo a uno dei fili che andava dalla batteria agli occhiali.
Era il meglio che potesse fare. Non c’era tempo per provare l’apparecchio adesso. Rialzò gli occhialoni sulla fronte e corse fuori in corridoio, dove prese l’ascensore per scendere al livello stradale. Un momento dopo correva verso la piazza pubblica a due isolati di distanza.
Quando vi arrivò, si trovò ai bordi della folla raccolta davanti al palazzo della Reggenza che guardava in alto verso i due balconi dell’edificio. Su quello più in basso c’erano parecchie persone che riconobbe subito: il dottor Skidder, Walter Johnson. Non mancava neppure il tenente Borgesen.
Sul balcone superiore il Reggente Barr Maxon era solo e parlava alla folla in basso. La sua voce sonora elaborava eleganti frasi che inneggiavano alla potenza dell’impero. A poca distanza da sé, in mezzo alla folla, Caquer scorse i capelli grigi del professor Gordon e la bella testa bionda di Jane accanto a lui. Si chiese se anche loro erano sotto l’effetto ipnotico. Ma certo dovevano essere anche loro sotto controllo, altrimenti non sarebbero stati lì. Si rese conto, allora, che non sarebbe servito niente parlar loro per informarli di quanto stava per fare.
Il tenente Caquer si fece scivolare gli occhialoni sugli occhi e rimase momentaneamente accecato perché i bracci del tergilenti erano nella posizione sbagliata. Ma le sue dita trovarono il reostato, lo regolarono sullo zero, poi cominciarono a spostarlo lentamente sul massimo.
Infine quando i tergilenti iniziarono la loro frenetica danza e accelerarono riuscì a vedere nebulosamente. Si guardò attorno attraverso le lenti ad arco. Sul balcone inferiore non vide nulla di insolito, ma su quello superiore la figura del Reggente Barr divenne improvvisamente indistinta.
C’era un uomo in piedi sul balcone superiore e in testa aveva uno strano casco con dei fili e, in cima, una ruota di dieci centimetri con specchi e prismi.
Una ruota che appariva ferma per via dell’effetto stroboscopico degli occhialoni meccanici. Per un istante la velocità dei tergilenti sì sincronizzò con la rotazione della ruota, cosicché ogni volta che la ruota compariva era sempre nella stessa posizione e all’occhio di Caquer era immobile, e quindi poteva vederla.
Poi gli occhiali si bloccarono.
Ma ormai non ne aveva più bisogno.
Ormai sapeva che Barr Maxon, o chiunque si trovasse là sul balcone, era colui che portava la ruota.
Silenziosamente e cercando di attrarre la minore attenzione possibile, Caquer fece il giro della folla e raggiunse la porta secondaria del palazzo della Reggenza.
C’era una guardia lì.
— Mi spiace, signore, ma nessuno…
Poi cercò di scansarsi, ma era, troppo tardi. Il piatto della daga del tenente di polizia Rod Caquer lo colpì alla testa.