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Non gli risposi.

— Credo che le tue budella possano arrivare fin lì, Commissario. Ad ogni buon conto, ho l’intenzione di sincerarmi. — Estrasse un pugnale dalla cintura e avanzò verso di me. I quattro semi-uomini si mossero con lui. — Chi credi che abbia più fegato? — chiese. — Tu o l’arabo?

Nessuno dei due rispose.

— Lo vedrete da soli — disse, a denti stretti. — Prima tu!

Mi tirò fuori la camicia e la lacerò sul davanti.

Fece ruotare la lama in lenti cerchi molto significativi ad un paio di centimetri dal mio stomaco, continuando nel frattempo a studiarmi il viso.

— Hai paura — disse. — Non ti si legge ancora in faccia, ma non ci vorrà molto.

Poi: — Guardami! La lama entrerà con lentezza enorme. E uno di questi giorni cenerò col tuo corpo. Cosa ne pensi?

Risi. D’improvviso, valeva la pena di riderci sopra. La sua faccia sembrò stravolta, poi si piegò ad una momentanea espressione di stupore.

— La paura ti ha fatto impazzire, Commissario?

— Piume o piombo? — gli chiesi.

Sapeva cosa significava. Fece per dire qualcosa, e poi sentì un sasso rotolare a qualche metro di distanza. Girò la testa da quella parte.

Passò gli ultimi secondi della sua vita a gridare, prima che la forza del balzo di Bortan lo schiacciasse contro il suolo, e la testa gli fosse strappata dalle spalle.

Il mio cagnone era arrivato.

I Kouretes gridarono, perché i suoi occhi sono carboni accesi e i suoi denti sono lame d’acciaio. La sua testa è alta dal suolo quanto quella d’un uomo. E per quanto loro afferrassero le spade e lo colpissero forte, i suoi fianchi sono quelli d’un armadillo. Un bel pezzo di cane, il mio Bortan… Non proprio come quelli di cui scriveva Albert Payson Terhune.

Lavorò per un minuto buono, e quando ebbe finito erano tutti a pezzettini, e nessuno vivo.

— Che cos’è? — chiese Hasan.

— Un cucciolo che ho trovato in un sacco, abbandonato sulla spiaggia, troppo resistente per affogare. Il mio cane, Bortan.

C’era una piccola ferita nella parte più tenera della sua spalla. E non se l’era fatta adesso.

— Prima ci ha cercati nel villaggio — dissi, — e hanno tentato di fermarlo. Parecchi Kouretes ci hanno rimesso la pelle.

Trotterellò avanti e mi leccò il viso. Scodinzolò, uggiolò come un cucciolo felice, e corse in piccoli cerchi. Mi saltò addosso e mi leccò di nuovo il viso. Poi tornò a correre, facendo schizzare attorno pezzi di Kouretes.

— È bello per un uomo avere un cane — disse Hasan. — Io sono sempre stato innamorato dei cani.

Bortan lo stava fiutando, mentre parlava.

— E così sei tornato, vecchio bastardo — gli dissi. — Non lo sai che i cani sono estinti?

Scosse la coda, mi tornò vicino e mi leccò la mano.

— Mi spiace di non poterti grattare gli orecchi. Ma lo sai che mi piacerebbe, no?

Agitò la coda.

Aprii e chiusi la mano destra, ancora legata. Girai la testa da quella parte, per indicargli la mano. Bortan mi osservava, le narici umide e frementi.

— Mani, Bortan. Ho bisogno di mani che mi liberino. Mani che taglino questi lacci. Devi trovarle, Bortan, e portarle qui.

Raccolse un braccio che giaceva sul suolo e me lo depose ai piedi. Poi guardò in su e scosse la coda.

— No, Bortan. Mani vive. Mani amiche. Mani che mi liberino. Mi capisci, non è vero?

Mi leccò la mano.

— Va a cercare le mani. Ancora attaccate al corpo, e vive. Mani di amici. Adesso, veloce! Vai!

Girò su se stesso e s’allontanò, si fermò, guardò indietro una volta, poi risalì il sentiero.

— Ti capisce? — chiese Hasan.

— Penso di sì — gli risposi. — Non ha il cervello d’un cane qualsiasi, e ormai sono passati più anni della vita d’un uomo da quando è nato, perciò ha avuto tutto il tempo per imparare a capire.

— Allora speriamo che trovi qualcuno in fretta, prima che ci addormentiamo.

— Sì.

Restammo lì legati, e la notte era fredda.

Aspettammo molto a lungo. Poi perdemmo la nozione del tempo.

I muscoli erano tutti un crampo doloroso. Eravamo coperti del sangue secco d’innumerevoli ferite. Eravamo tutti ammaccati. Eravamo sfiniti per la fatica e per la mancanza di sonno.

Restammo lì legati alle rocce, con le corde che affondavano nella nostra pelle.

— Credi che ce la faranno ad arrivare al tuo villaggio?

— Abbiamo dato loro una buona partenza. Penso che abbiano decenti possibilità.

— È sempre difficile lavorare con te, Karagee.

— Lo so. Anch’io me ne sono accorto.

— … Come l’estate che siamo rimasti a marcire nelle galere della Corsica.

— Già.

— … O la marcia sulla stazione di Chicago, dopo che avevamo perso tutto l’equipaggiamento in Ohio.

— Sì. Quello fu un anno disgraziato.

— Ma tu sei sempre nei guai, Karagee. Dalle mie parti c’è un proverbio per i tipi come te: «Nato per annodare la coda della tigre». È difficile starti assieme. Io, per me, amo la quiete e l’ombra, un libro di poesie, la mia pipa…

— Zitto! Sento qualcosa!

C’era rumore di zoccoli.

Un satiro apparve nel cerchio di luce sbilenco proiettato dalla lanterna caduta. Si muoveva nervosamente, e i suoi occhi andavano da me a Hasan a me, e su, giù, intorno, e oltre noi.

— Aiutaci, piccola creatura cornuta — dissi, in greco.

Avanzò con cautela. Vide il sangue, i Kouretes smembrati.

Si girò come per fuggire.

— Torna indietro! Ho bisogno di te! Sono io, il suonatore di flauto.

Si fermò e si voltò di nuovo. Le sue narici s’alzavano e s’abbassavano, fremevano. Gli orecchi puntuti erano tesi.

Tornò indietro, e un’espressione di dolore quasi umano si dipinse sul suo viso quando scavalcò i corpi macellati.

— La spada. Ai miei piedi — dissi, puntando gli occhi in basso. — Raccoglila.

Non sembrava che gli piacesse molto l’idea di toccare una cosa fatta dagli uomini, specialmente una spada.

Allora canticchiai le ultime strofe della mia canzone.

È tardi, è tardi, così tardi…

Gli occhi gli si inumidirono. Se li asciugò col dorso dei suoi polsi pelosi.

— Raccogli la spada e taglia i nodi. Raccoglila. No, non così, ti taglierai. Dall’altra parte. Sì.

La raccolse a dovere e mi guardò. Mossi la mano destra.

— I nodi. Tagliali.

Ce la fece. Gli ci vollero quindici minuti, e m’adornò il polso d’un braccialetto di sangue. Dovetti continuare a muovere la mano per impedirgli di tagliarmi un’arteria. Ma mi liberò, e poi mi fissò ansiosamente.

— Adesso dammi la spada e penso io al resto.

Depose la spada sulla mia mano tesa in avanti.

La presi. Qualche secondo dopo ero libero. Poi liberai Hasan. Quando mi girai nuovamente il satiro era scomparso. Udivo in distanza il suono d’un frenetico correre di zoccoli.

— Il Demonio mi ha perdonato — disse Hasan.

Ci allontanammo dal Posto Caldo il più velocemente possibile, evitando il villaggio dei Kouretes e dirigendoci a nord, finché raggiungemmo un sentiero in cui riconobbi la strada per Volos.

Se fosse stato Bortan a trovare il satiro e costringerlo in qualche modo a soccorrerci, o se invece la creatura ci aveva spiati e m’aveva riconosciuto, era una cosa di cui non potevo essere sicuro. Comunque Bortan non era tornato, sicché era più probabile la seconda ipotesi.

La città amica più vicina era Volos: un venticinque chilometri di strada, verso est. Se Bortan era arrivato lì, dove parecchi parenti l’avrebbero riconosciuto, ci sarebbe voluto ancora un bel po’ prima che tornasse. Mandarlo a cercare aiuto era stata un’azione decisamente disperata. Se s’era diretto da qualsiasi altra parte, non avevo idea di quanto ci potesse impiegare. Ma sapevo che avrebbe ritrovato le mie tracce, e le avrebbe seguite. Continuammo a procedere, ponendo il maggior spazio possibile dietro di noi.